Da anni, l’acronimo Neet (ovvero la condizione di quei giovani che hanno terminato il ciclo di studi, non hanno un lavoro, non lo cercano o hanno smesso di cercarlo) ha fatto irruzione nelle statistiche riguardanti l’occupazione come segnale di un profondo malessere dell’azienda Italia. E, di rimbalzo, questo fenomeno è finito sui media come segnale della sofferenza di intere generazioni. Ci fu persino, da parte di ItaliaLavoro (l’Agenzia tecnica del Ministero) un tentativo di classificare tali situazioni, scomponendole in ben quattro gruppi: 1) giovani in cerca di occupazione ovvero quelli che cominciano ad assumere un ruolo “proattivo” (537mila); 2) indisponibili (223mila di cui 142mila donne); 3) disimpegnati (209mila); 4) in cerca di opportunità ovvero interessati a lavorare a certe condizioni (301mila). Ma secondo l’Istat il numero dei Neet è ancora più consistente e, soprattutto, varia a seconda degli andamenti del mercato.
Può succedere, infatti, che, in un certo periodo, aumentino i disoccupati e diminuiscano i Neet, per il semplice fatto che sia superiore il numero di coloro che si attivano a cercare un’occupazione, anche senza trovarla nell’immediato. È poi frequente servirsi delle statistiche nella stessa maniera in cui gli ubriachi utilizzano i lampioni: per appoggiarvisi nel loro incerto procedere verso casa (fuor di metafora, per farne uno strumento propagandistico delle proprie tesi). Allora, dal momento che per un certo tipo di giornalismo (un po’ cialtrone) solo quelle cattive sono notizie meritevoli di interesse, di pubblicazione e di commento, capita che dei giovani si dia una rappresentazione disperata, nullafacente, condannata a una vita grama e a una vecchiaia priva di pensione. Ed è molto difficile scalfire questo consolidato luogo comune. Basterebbe chiedere a chi è attento frequentatore dei talk show (magari stando comodamente seduto sul divano della sua abitazione) o si diletta a navigare sulla Rete, se ha mai sentito parlare del programma Garanzia Giovani (pensato e promosso a livello europeo proprio per “stanare” i giovani Neet).
Eppure, in Italia si sono registrati 1,2 milioni di ragazzi, 800mila dei quali sono stati “presi in carico” dai Centri per l’impiego e a più di 415mila è stata offerta un’opportunità di lavoro. Magari soltanto un rapporto di tirocinio, che costituisce, pur sempre, un modo per entrare in contatto con il mondo del lavoro. Di recente a me è capitato di partecipare a una trasmissione televisiva durante la quale ha suscitato vivaci polemiche il fatto che McDonald’s avesse proposto di effettuare ben diecimila rapporti di tirocinio nei punti-vendita italiani. “A fare panini lo insegno io a mio figlio!”, affermavano madri sdegnate. Come se tutti i lavori non fossero “decenti” e se il prendere confidenza con il lavoro (che è lo scopo principale del tirocinio) non significasse anche entrare a far parte di un’organizzazione, relazionarsi con altre persone, rispettare dei turni e degli orari, inserirsi in una gerarchia operativa. Nella più classica (di altri tempi) american way of life i grandi capitani d’industria, da ragazzi, avevano fatto gli strilloni di giornali.
Inaspettatamente, qualcuno si è accorto, per fortuna, che una parte del bicchiere è piena. Mi riferisco a una ricerca “Inventarsi il lavoro: i giovani che ce la fanno”, curata da Confcooperative e Censis. Addirittura è stato creato un acronimo: Eet (Employed-Educated and Trained). Tra le varie statistiche che vi sono contenute, il rapporto sottolinea che, nel 2015, a quattro anni dalla laurea, il 72,8% dei laureati di 1° livello ha dichiarato di lavorare, contro il 19,7% che è in cerca di lavoro e il restante 7,5% che invece non cerca affatto lavoro. Le percentuali relative ai laureati magistrali, invece, indicano – a prova dell’utilità della formazione universitaria – una migliore condizione lavorativa, dal momento che ha dichiarato di lavorare l’83,1% del totale. La quota di chi è in cerca di lavoro è pari al 13,1% (6,6 punti percentuali in meno rispetto all’altra categoria di laureati), mentre chi non cerca lavoro rappresenta il 3,8% del totale. I giovani titolari d’impresa sono 175mila, di cui il 24,7% presente nel Nord Ovest, il 15,7% nel Nord Est, il 18,5% nelle regioni centrali, mentre nel Mezzogiorno la quota raggiunge – è bene segnalarlo – il 41,1%.
Osservando tutti i settori produttivi, la componente giovanile perde poco più di 41mila titolari d’impresa; nei settori in crescita, tuttavia, le imprese dirette da giovani hanno invece un saldo positivo e pari a circa 8,7mila unità. Guardando nel dettaglio dei settori produttivi, emerge una dinamica positiva che vede crescere del 53,4% il numero dei giovani titolari d’impresa nei servizi d’informazione e altri servizi informatici, del 25,3% nei servizi di ristorazione, del 51,5% nei servizi per edifici e paesaggio. Nelle attività legate alla gestione di alloggi per vacanze e altre strutture per soggiorni brevi l’incremento è del 55,6%. Raddoppiano, inoltre, i giovani imprenditori nelle attività di supporto per le funzioni d’ufficio e servizi alle imprese (+113,3%).
Al 2015, inoltre, i 2 milioni 630mila occupati con un’età compresa fra i 15 e i 29 anni, pari all’11,7% del totale degli occupati, incidono – si stima – sui redditi da lavoro per il 7,3%. Un valore pari a 46,5 miliardi di euro, con differenze tra lavoro dipendente e indipendente: l’8% dei redditi da lavoro dipendente, il 5,3% dei redditi da lavoro autonomo. I 46,5 miliardi incidono sul Pil per il 2,8%.
Come risulta, quindi, permangono tanti problemi ed esistono aspetti contradditori, ma l’Italia non è avvolta da una “notte in cui tutte le vacche sono nere”.