Il peana di entusiasmi che lo accompagna è certamente eccessivo, ma il rinnovo del contratto dei metalmeccanici costituisce un evento importante e significativo. La chiusura di una vertenza durata oltre un anno e riguardante circa 1,6 milioni di lavoratori dell’industria manifatturiera – a conti fatti – manda un segnale positivo, anche a considerare solamente gli aspetti di carattere fisiologico, tra i quali va inclusa – dopo ben otto anni di polemiche, divisioni e intese separate- la ritrovata unità d’azione delle federazioni sindacali. Viene ripristinato, in sostanza, un modus operandi che in questa categoria, depositaria di grandi tradizioni ed esperienza unitarie, sembrava scomparso per sempre. 



Certo, qualcuno potrebbe legittimamente chiedersi se quel Maurizio Landini che ha posto la sua firma sotto il verbale d’intesa sia lo stesso che – non è trascorso molto tempo – conduceva, in tutte le sedi una guerra a oltranza alla Fiat-Fca, contestava da sinistra i vertici confederali e fondava la cosiddetta Coalizione sociale, una sorta di ircocervo, mezzo partito e mezzo sindacato. I maligni sostengono che Landini si sia rassegnato alla logica per cui “Parigi val pure una messa”; nel senso che, rientrando nei ranghi di un maggiore realismo, potrà aspirare a prendere il posto di Susanna Camusso quando scadrà il suo mandato. La coerenza non è sempre una virtù, soprattutto quando si lascia la strada sbagliata. Con la firma dell’accordo da parte del segretario della Fiom il sindacato acquista un potenziale leader e si libera di un inutile e fastidioso demagogo. A noi sembra che, tutto sommato, sia una cosa buona. 



Quanto ai contenuti dell’accordo il tasso di innovazione è parecchio elevato. Il contributo maggiore è venuto da Federmeccanica. Sua è stata la piattaforma che ha fatto da base al negoziato; sua la determinazione di portarla avanti senza indugi e ripensamenti. A volte capita che il destino si prenda delle rivincite. Sono trascorsi più di cinquant’anni dal Protocollo Intersind-Asap della fine del 1962 (imposto anche alla Confindustria nel febbraio dell’anno dopo) che aprì, per iniziativa dei sindacati metalmeccanici, la strada al diritto di contrattazione aziendale e alla definizione di un modello che – stabilizzato e razionalizzato nel 1993 dopo l’abolizione dell’indennità di contingenza – ha regolato il sistema di relazioni industriali in Italia fino a esaurire la sua “spinta propulsiva”. Oggi possiamo intravvedere, nei contenuti dell’accordo sottoscritto, le premesse di una svolta, a lungo ricercata inutilmente e sempre vanificata, nei diversi tentativi compiuti, dai contrasti esistenti tra i sindacati dei metalmeccanici. 



La vicenda era diventata persino patetica: la Cgil stringeva accordi con le altre confederazioni – sulla rappresentanza, sulla struttura contrattuale, sulle clausole di deroga e quant’altro -, ma la Fiom un minuto dopo gettava per aria il tavolo, in nome dei “sacri principi” del vetero-sindacalismo. Oggi i metalmeccanici ritornano a “dare la linea”, come hanno sempre fatto nei loro momenti migliori, proponendo e ottenendo conquiste contrattuali che “facevano scuola”: l’inquadramento unico, le 150 ore, il riconoscimento dei consigli dei delegati, i diritti di informazione e consultazione di cui alla cosiddetta prima parte dei contratti, solo per ricordare gli aspetti più noti e significativi. 

L’apparato produttivo italiano ha accumulato un vero e proprio gap anche in materia di produttività e può recuperare uno spread di competitività, non solo con gli investimenti, ma anche attraverso un utilizzo più efficiente e moderno del fattore lavoro in tutti i suoi aspetti, riportando lo scambio tra retribuzione e prestazione laddove “girano le macchine”, favorendo la cosiddetta contrattazione di prossimità. Il Governo ha rafforzato, nelle ultime leggi di bilancio, un quadro normativo ed economico che rende conveniente (mediante sgravi contributivi e fiscali) gli accordi sulla produttività e sulle iniziative di welfare aziendale. L’intesa tra Federmeccanica e sindacati si propone di spostare il peso degli oneri della contrattazione a livello d’azienda. Basta scorrere sia pur sommariamente i capitoli del verbale d’intesa. 

L’ammontare prevalente delle risorse (a eccezione di quelle destinate a iniziative di welfare necessariamente nazionali e di categoria, come la previdenza integrativa pensionistica e sanitaria) sarà distribuito nell’impresa. Il contratto nazionale conserva un ruolo di protezione del potere d’acquisto delle retribuzioni, ma eserciterà queste funzioni ex post, ovvero una volta che sia emerso un differenziale effettivo con l’andamento delle retribuzioni. In sostanza, dovrebbe venir meno un’idea di contratto nazionale come momento e occasione di un miglioramento retributivo per tutti i lavoratori senza che il sistema delle imprese ottenga qualche contropartita in cambio. 

Anche nel caso del diritto soggettivo alla formazione, Fim, Fiom e Uilm hanno fatto tesoro di gloriose esperienze passate. Nel contratto del 1972 ottennero il diritto a 150 ore pagate dalle imprese per quei lavoratori che volevano terminare la scuola dell’obbligo. Si trattò di una misura che consentì a centinaia di migliaia di lavoratori di completare un ciclo di studi. Fu la scuola pubblica a doversi adattare a queste esigenze. Anche adesso c’è la necessità di preparare il mondo del lavoro ad affrontare la quarta rivoluzione industriale con il suo carico di tecnologia avanzata, interrompendo il solito andazzo del ricorso agli esuberi e ai prepensionamenti del personale anziano e non più qualificato. 

Certo, è facile scrivere delle norme innovative; più difficile è farle vivere nella realtà dove si è costretti a misurarsi con le difficoltà e le inadeguatezze delle strutture, dei servizi e delle persone stesse. In questa circostanza, almeno, la più importante categoria dell’industria ha deciso di provarci.