«Volete voi l’abrogazione degli artt. 48, 49 (come modificato al suo terzo comma dal d. lgs. n. 185/2016) e 50 del d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante ” Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1 comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (voucher)”?». È questo il quesito del terzo referendum promosso dalla Cgil, sorretto da oltre 3 milioni di firme sulla cui ammissibilità si pronuncerà la Consulta l’11 gennaio prossimo. Diversamente da quello sulla disciplina del licenziamento individuale che riteniamo inammissibile, questo quesito non dovrebbe incontrare ostacoli. Ma se mai si andrà alla consultazione c’è solo da augurarsi che non sia raggiunto il quorum, perché gli effetti di un’abrogazione di norme che hanno funzionato prima ancora che sbagliata sarebbe una cosa oltremodo stupida.
Nelle scorse settimane è stato diffuso un Workshop dell’Inps dedicato al lavoro accessorio. Lo studio si conclude con una domanda: “E se li abolissimo? Così come sono stati inventati, anche i voucher possono essere aboliti. Ma ciò che non può essere abolito è il problema sottostante: come si pagano le attività di breve durata (dato che è arduo pensare di abolirle)?”. Giriamo la domanda ai promotori del referendum. Ancorché persuasi della possibile esistenza di un mondo migliore, non possono certo immaginare che – aboliti gli infami voucher – fioccheranno assunzioni a tempo indeterminato o che i datori faranno ricorso a contratti a termine tanto brevi (non si dimentichi mai che la stragrande maggioranza di questi ultimi rapporti ha una durata molto contenuta, spesso solo di alcuni giorni) da creare tanti problemi burocratici a datori di lavoro che preferiranno cavarsela da soli o correre il rischio del lavoro nero piuttosto che assumere. Invece che dei voucher – possono replicare i sostenitori del referendum – ci si potrebbe avvalere dei rapporti di somministrazione, ma verrebbe a mancare quell‘intuitus personae che il lavoro accessorio è in grado di assicurare, dal momento che il rapporto in tal caso è diretto tra il committente e il prestatore d’opera.
Ma dove sta lo scandalo dei voucher? Il lavoro accessorio è regolato da norme precise. Il decreto n. 81/2015 ne ha ampliato il raggio di azione al limite di 7mila euro (netti) annui (2mila per ogni singolo committente imprenditore o professionista). Anche i percettori di prestazioni di sostegno del reddito possono svolgere attività di lavoro accessorio nel limite di compensi non superiori a 3mila euro. In agricoltura queste attività sono consentite se svolte da giovani studenti con meno di 25 anni compatibilmente con gli impegni scolastici o da pensionati. Oppure in attività agricole in favore di soggetti che non prevedono di superare un volume di affari di 7mila euro l’anno. Il committente acquista esclusivamente attraverso modalità telematiche uno o più carnet di buoni orari. Nella Legge di bilancio per il 2017 sono state rafforzate le regole sulla tracciabilità, al fine di contrastare l’elusione della disciplina vigente.
Il problema è molto semplice, allora: questo quadro normativo viene rispettato o no? Certo, dal 2008 al 2015 “il popolo dei voucher” ha cambiato pelle. All’inizio erano in prevalenza anziani (con un’età media intorno ai 60 anni). Con il procedere del tempo e con il variare delle normative (quando si è andati ben oltre l’impiego nelle vendemmie) è cresciuto il numero dei giovani (i quali hanno percepito il 43% dei voucher nel 2015), mentre si è ridotto in percentuale quello degli over 60 (8%) anche se in valori assoluti l’espansione dei voucher è proseguita pure per loro (oltre 100mila nello scorso anno).
È aumentato anche il numero medio dei voucher riscossi (da 19,4 nel 2008 a 63,5 nel 2015). Si è allargata la platea degli utilizzatori, dal momento che i nuovi prestatori costituiscono, ogni anno, la maggioranza. Inoltre, se maggiore è il numero di voucher percepiti, ugualmente maggiore è la probabilità del lavoratore di essere re-impiegato anche nell’anno successivo. Il numero medio di voucher percepiti nel 2015 è corrisposto a 478 euro netti nell’arco di 12 mesi. Essendo il valore della mediana pari a 29 voucher riscossi, la metà dei prestatori di lavoro accessorio ha incassato in un anno 217 euro netti. Soltanto il 2,2% dei prestatori (circa 30mila) ha incassato, l’anno scorso, più di 330 voucher con un guadagno netto di 2.250 euro.
Ciò significa che – come fa notare il paper dell’Inps – per l’84% dei prestatori non viene neppure raggiunto l’accredito minimo di un mese utile ai fini previdenziali della Gestione separata (pari a 168,44 euro corrispondenti a 130 voucher). Negli ultimi anni – dal 2013 al 2015 – i committenti sono raddoppiati, mentre i prestatori sono aumentati del 137% e i voucher riscossi del 142%. Ciononostante in ciascuno degli anni considerati, a partire dal 2008, la spesa per voucher dei committenti è stata in media inferiore ai 2mila euro, benché il numero medio sia salito da 154 a 186.
Riconosciamolo: ci vorrebbe una regia diabolica, degna della Spectre, per realizzare un piano elusivo, ma molto conforme alle regole previste. Le caratteristiche del fenomeno dei voucher sono confermate anche dai trend del loro utilizzo da parte dei committenti. Il 65% li utilizza in maniera marginale; il 21% ne ha fatto un uso intensivo e selettivo (oltre 70 voucher pro capite); l’11% si è avvalso di molti prestatori pur retribuendoli in misura ridotta, mentre solo il 3% ne fa un utilizzo importante (più di 5 lavoratori) con un’erogazione di oltre 70 voucher.
Il costo del lavoro delle persone retribuite con questo strumento di pagamento è comunque limitato (1,19% dell’ammontare del lavoro dipendente e di quello accessorio) anche se in crescita (era lo 0,75% nel 2011). Il settore degli alberghi e ristoranti costituisce il 40% delle imprese che si avvalgono dei buoni lavoro con un costo relativo del 3,4%. Insomma, tanto rumore per nulla?