Si fa sempre un gran parlare dei giovani, anche quando si affronta il tema delle pensioni: un argomento che è divenuto il “pane quotidiano” di tutti i talk show. Eppure, a pensarci bene, che cos’hanno da guadagnare i giovani (lavoratori di oggi e pensionati di domani) dalle soluzioni adottate (o promesse) in materia? Meno di nulla, se non forse un po’ di vendetta nei confronti delle generazioni dei padri e dei nonni, qualora passassero quelle disposizioni punitive sui trattamenti in essere che vengono continuamente minacciate. Per il resto, tutti i provvedimenti riguardano i pensionati o i pensionandi. In sostanza si concede ai giovani il contentino del “mal comune mezzo gaudio”, promettendo di tagliare la pensione dei “padri” egoisti e ingenerosi, minacciandoli di applicare anche a loro l’autodafé del calcolo contributivo. Occorrerebbe, invece, trovare il coraggio di dire la verità.
Il modello prefigurato dalla riforma Dini e dagli aggiustamenti successivi è rimasto con la testa rivolta all’indietro, nel senso che ha continuato a collocare i lavoratori di oggi e di domani nel mercato del lavoro di ieri, senza porsi l’obiettivo di come garantire ai giovani – a fronte delle condizioni del mercato del lavoro dell’economia globalizzata e competitiva – un trattamento non solo sostenibile, ma anche adeguato.
A pensarci bene, mutatis mutandis, sarebbe necessario compiere un’operazione analoga – sul piano della visione – a quella che fu fatta alla fine degli anni ‘60 con la legge delega n.153/1969, quando da un rozzo sistema contributivo (le cosiddette marchette) si passò a quello retributivo che si dava come obiettivo quello di assicurare, alla fine della vita attiva, una pensione equipollente al reddito acquisito nell’ultima fase di essa. La finalità era quella di garantire una vecchiaia dignitosa a quanti avevano avuto una storia lavorativa e contributiva piuttosto accidentata nell’immediato dopoguerra. O addirittura avevano visto sfumare i loro versamenti, relativi ad attività lavorative antecedenti il conflitto, per via dell’inflazione postbellica (a proposito: lo sa Matteo Salvini che Mussolini utilizzò le risorse dell’Inps per le sue imprese coloniali e belliche?).
Le modalità con cui questo esito venne perseguito (una retribuzione pensionabile limitata a un arco temporale troppo breve) sono, in parte, alla base dell’insostenibilità del sistema prima delle riforme. Ed era frutto di un’idea, allora radicata, dello sviluppo come dato permanente e in continuo progresso. Ma almeno il modello era in grado di garantire una tutela pensionistica adeguata per quei soggetti sociali che erano centrali nel mercato del lavoro di allora.
L’incerta prospettiva pensionistica dei giovani di oggi non deriva dalle regole dell’accreditamento dei contributi e dal meccanismo di calcolo della prestazione, ma dalla loro condizione occupazionale precaria e saltuaria durante la vita lavorativa. Una carriera contraddistinta da un accesso tardivo all’impiego, da rapporti interrotti e discontinui (senza potersi giovare, inoltre, di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che cucia tra di loro i differenti periodi lavorativi, magari contraddistinti da rapporti regolati da regimi differenti) finirà per influire negativamente anche su di una pensione il cui regime venne pensato per un lavoratore della società industriale.
Il fatto è che le nuove caratteristiche del lavoro non sono un incidente della storia, ma il frutto di una trasformazione permanente, resa necessaria dai processi dell’economia globale e competitiva. Da noi, invece, si continua a ballare intorno al totem del contratto a tempo indeterminato come forma comune di lavoro, come se bastasse sconfiggere, durante la vita attiva, quelle che chiamano condizioni di precarietà per salvare così anche la pensione. Quando occorrerebbe invertire il paradigma.
Ecco, dunque, l’esigenza di ripensare un sistema obbligatorio coerente con il lavoro di oggi e di domani. Magari da applicare solo ai nuovi assunti, come il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. È questa la prospettiva a cui dovrebbe lavorare il Governo: immaginare un Jobs Act delle pensioni. Occorrerebbe mettere in sinergia le politiche a favore dell’occupazione dei giovani con un riordino del sistema pensionistico che abbia lo sguardo rivolto in avanti, cioè a un modello che sia in grado di tutelare, al momento della quiescenza, non solo il lavoro di ieri, ma quello di oggi e di domani in tutte le sue peculiarità e differenze rispetto al passato.
I capisaldi di questa proposta potrebbero essere i seguenti: 1) le nuove regole dovrebbero valere solo per i nuovi occupati (quindi per i giovani); 2) i versamenti sarebbero effettuati sulla base di un’aliquota uguale – e pari al 25-26% – per dipendenti, autonomi e parasubordinati (si può valutare una certa gradualità nell’operazione) dando luogo a una pensione obbligatoria di natura contributiva; 3) sarebbe istituito per questi lavoratori un trattamento di base, ragguagliato all’importo dell’assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale, che faccia da zoccolo della pensione contributiva o svolga una funzione assistenziale a favore di chi non ha potuto assicurarsi un trattamento pensionistico; 4) per quanto riguarda il finanziamento della pensione complementare sarebbe consentito l’opting out (ovvero la possibilità di scorporare e utilizzare diversamente in modo volontario con il relativo versamento del corrispettivo in una forma di previdenza complementare) di alcuni punti di aliquota contributiva obbligatoria, nei termini e con le cautele ipotizzate dalla riforma Fornero del 2011.
Tale proposta realizzerebbe una convenienza a effettuare nuove assunzioni grazie alla previsione di un’aliquota contributiva più ridotta (e quindi grazie alla diminuzione del costo del lavoro). Inoltre, questa potrebbe divenire la soluzione a regime, quando verranno meno le condizioni per confermare la decontribuzione prevista nel caso di assunzioni con il contratto a tutele crescenti. La pensione di base compenserebbe i minori accreditamenti secondo il modello contributivo.
La riforma, nel suo complesso, riguarderebbe circa 400-500mila unità all’anno (la nuova occupazione, sempre che riparta l’economia, assunta con il contratto di nuovo conio). E, quindi, pur richiedendo una copertura finanziaria, presenterebbe un grado di sostenibilità ben superiore rispetto a quella derivante dai progetti all’esame del Parlamento. E soprattutto rappresenterebbe una riforma che guarda al futuro e alla società di oggi e di domani.