Tra i tanti meriti da riconoscere al Rapporto 2016 di Itinerari previdenziali, di cui è animatore e patron Alberto Brambilla, uno dei più importanti e significativi è senz’altro quello di sfatare – dati inconfutabili alla mano – le tante leggende metropolitane che inquinano il dibattito sulla previdenza. Basterebbe citare, infatti, il titolo di un paragrafo (“Un Paese ad alta evasione diffusa, abitato da benestanti poveri”) per capire subito l’antifona. Il Rapporto, infatti, si prodiga nello smentire il pauperismo che dilaga nei talk show, rappresentando un universo di pensionati che hanno scoperto il modo di moltiplicare i pani e i pesci, visto che riescono a sbarcare il lunario denunciando trattamenti tanto modesti che, a conti fatti, non consentirebbero nemmeno una stentata sopravvivenza.
Il testo mette in parallelo le dichiarazioni dei redditi Irpef con i dati riguardanti le pensioni. La somma dei redditi 2013 dichiarati dagli italiani ai fini Irpef è di 803,3 miliardi per un totale di Irpef, comprese le addizionali, pari a 167,8 miliardi (versamenti nel 2014). Dall’esame dei dati emerge che: a) i lavoratori autonomi versano appena il 6,27% dell’Irpef totale; b) il 46,5% dei contribuenti (poco più di 19 milioni) che hanno redditi da zero o negativi, fino a 15.000 euro, dichiarano solo il 16,20% dei redditi totali, cioè 130 miliardi, per un reddito medio di 6.851 euro (571 euro al mese, meno di un pensionato sociale con integrazione che si riduce ulteriormente considerando che tale reddito serve anche per le persone a carico; c) l’imposta media pagata è pari a 485 euro per contribuente.Considerando, però, il rapporto cittadini italiani (60,7 milioni) su contribuenti (41 milioni), ognuno di questi ultimi ha in carico 1,5 cittadini, per cui ai 19 milioni di dichiaranti fino a 15mila euro corrispondono circa 28 milioni di cittadini e l’imposta media annua pagata è pari a 327 euro.
In base ai dati suddetti, per garantire la sanità a questi primi 28 milioni di italiani occorre che altri cittadini (contribuenti più fortunati o più onesti) versino 41,3 miliardi, oltre a pagarsi la propria sanità, dato che il servizio sanitario nazionale, per il 2013, è costato circa 109 miliardi per una spesa pro capite, appunto, di 1.790 euro. Togliendo dal totale di cui sopra i pensionati restano 11,8 milioni di lavoratori che presentano redditi sotto i 15mila euro l’anno; in particolare, 3,8 milioni di dipendenti e 3,3 milioni di autonomi dichiarano redditi negativi o al massimo fino a 7.500 euro.
È ovvio che questi 7,2 milioni di soggetti – a cui si sommano altri 4,7 milioni che dichiarano in media 11.500 euro l’anno – non matureranno il minimo pensionistico e quindi, in futuro, lo Stato dovrà prevedere esborsi molto alti per pagare pensioni sociali, maggiorazioni o integrazioni al minimo a oltre 11 milioni di futuri pensionati “poveri”.
Si affaccia qui un dubbio atroce che gli intervistatori televisivi dei pensionati non si pongono mai: quelli che percepiscono pensioni minime o troppo basse non saranno per caso stati, durante la vita attiva, degli evasori del fisco o dei contributi? Dall’analisi delle dichiarazioni Irpef relative al 2013, presentate nel 2014, emerge, infatti, un Paese che difficilmente potrebbe identificarsi nell’Italia, membro del G-7. In sintesi, su 60 milioni di abitanti, il numero di contribuenti, cioè di quelli che presentano la dichiarazione dei redditi è di circa 41 milioni (500 mila in meno rispetto all’anno precedente); i contribuenti effettivi (cioè con imposta netta positiva) sono circa 31 milioni. Ciò significa che – a stare ai dati – quasi la metà dei nostri concittadini non ha redditi e quindi vive a carico di qualcuno.
Per valutare, poi, gli importi dell’Irpef media pagata dai nostri cittadini, Brambilla ha calcolato il rapporto tra il numero dei dichiaranti e il numero di abitanti del Paese; ne risulta che a ogni dichiarante corrispondono quasi 1,5 abitanti (probabilmente in parte persone a carico). Rovesciando la descrizione possiamo riassumerla anche così: lo 0,19% dei cittadini paga il 6,9% dell’Irpef. L’1,02% dei contribuenti paga il 16,3% dell’Irpef, oppure il 4,01% paga il 32,6%, oppure ancora l’11% paga il 51,2% di tutta l’Irpef (il 38,1% paga quasi l’86% di tutta l’Irpef).
Questa situazione ovviamente è pericolosa – sostiene il Rapporto – in quanto tali percentuali, che si assottigliano sempre più negli anni, se si dovessero ridurre ulteriormente creerebbero enormi problemi di finanziamento del welfare con gravi ripercussioni sulla sostenibilità e coesione sociale. Impressionante, secondo il documento, la progressione delle imposte medie pagate: tra i 20 i 35mila euro, l’imposta media è pari a 3,4mila euro; tra i 35 e i 55mila euro, 7,3mila euro; tra i 55 e i 100mila euro, 15,079mila euro; tra i 100 e i 200mila euro, 31,5mila euro; sopra i 200mila euro, sono 102mila; oltre i 300mila la media della sola Irpef e addizionali regionali e comunali è 163mila euro, cioè oltre il 50% del reddito lordo a cui si sommano le altre imposte, tasse e accise. In pratica questi soggetti lavorano per i due terzi per lo Stato e solo per un terzo per la propria famiglia. Si spiega, quindi, il perché ogni anno questo numero diminuisce sempre più anche perché a costoro sono precluse quasi tutte le agevolazioni tariffarie e sanitarie.
E per quanto riguarda le pensioni e i pensionati? Il Rapporto contribuisce a fare luce alche sul tormentone delle cosiddette pensioni d’oro. Al di là dei trattamenti in vigore negli organi istituzionali, sarà il caso di ricordare alcuni aspetti che vengono troppo sovente dimenticati: premesso che è operante un robusto contributo di solidarietà sugli assegni più elevati, in uno Stato di diritto a ridistribuire i redditi delle persone provvede il sistema fiscale con l’aliquota progressiva. Non a caso il Rapporto Brambilla ricorda che quasi la metà dei pensionati (oltre 8 milioni) non paga imposte perché trattatasi di pensioni sociali, di invalidità o accompagno, e integrate o maggiorate. I cosiddetti pensionati d’oro – prosegue il documento – cioè quelli che prendono tra 55 e 100mila euro lordi l’anno (in media 47mila euro netti l’anno) sono solo il 2,5% del totale e dichiarano il 14,7% dell’Irpef totale; quelli sopra i 100mila euro sono lo 0,79% del totale, circa 175mila, e pagano circa il 13% dell’Irpef totale. In pratica – stigmatizza il Rapporto – il 3,3% dei pensionati paga quasi il 28% di tutta l’Irpef.
In buona sostanza, un contribuente con un reddito tra 55 e 100 mila euro, paga 15mila euro di tasse cioè 31 volte l’imposta pagata singolarmente dal 46,5% dei contribuenti fino a 15mila euro di reddito. Quelli tra 100 e 200mila euro di reddito pagano 65 volte, quelli tra 200 e 300mila, 129 volte e addirittura 336 volte quelli sopra i 300mila euro. È come dire che un lavoratore con reddito di 100mila euro paga in un anno quello che uno dei 19 milioni di dichiaranti redditi fino a 15mila euro, paga in 40 anni di lavoro. Questo divario tra imposte è molto superiore al divario medio dei redditi. Tuttavia, nell’immaginario collettivo sono quelli “ricchi” a cui applicare se possibile anche imposte patrimoniali e se pensionati, con blocchi delle indicizzazioni, prelievi forzosi e, secondo alcuni movimenti, da espropriare oltre un certo livello di pensione. In un Paese normale – conclude Alberto Brambilla – dove il merito dovrebbe contare ancora qualcosa, sarebbero da citare invece come esempi virtuosi.