Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è ormai in vigore da un anno. In questa occasione il ministero del Lavoro (si veda la tabella a fondo pagina) ha pubblicato i dati delle Comunicazioni obbligatorie (un adempimento di carattere amministrativo a cui sono tenuti i datori di lavoro nei casi di instaurazione, trasformazione, proroga e cessazione del rapporto di lavoro), riguardanti il quarto e ultimo trimestre del 2015. Le statistiche ministeriali confermano quanto già era stato reso noto dall’Inps (che peraltro ha già fornito i dati di gennaio di quest’anno, i quali hanno confermato il trend positivo dell’occupazione).



Che i contratti a tempo indeterminato siano stati circa 740mila lo sapevamo già, tanto che il numero troneggiava, a caratteri cubitali, alle spalle del giovane caudillo (che quanto a pubblicità non si fa mai mancare nulla) in occasione dell’ultima assemblea del Pd. Ovviamente nessuno sarà mai in grado di attribuire con certezza le quote-parti di questo risultato: quanto al Jobs Act; quanto alla decontribuzione; quanto al timido accenno di ripresa economica. Certamente, è significativo che il trend positivo dell’occupazione sia proseguito anche nei primi mesi del 2016, benché il “bonus” concesso per le nuove assunzioni sia stato ridotto tanto nell’entità (40%) quanto nella durata, a seguito della Legge di stabilità per il 2016.



Si conferma, poi, un importante cambiamento nel mix della struttura dei flussi di accesso al mercato del lavoro. In sostanza, le assunzioni a tempo indeterminato sono praticamente raddoppiate: erano comprese tra il 15-17%, nelle ultime rilevazioni sono salite al 30% (un anno fa Giuliano Poletti affermò che si sarebbe ritenuto soddisfatto di un tale risultato). Di converso, le assunzioni a tempo determinato sono scese dal consueto 70% al 59% nel quarto trimestre 2015, come segnala ancora il report del Ministero. Attenzione, però: i contratti a termine – per un totale di oltre 1,4 milioni unità – sono ancora il doppio di quelli a tempo indeterminato (740mila). Magari può succedere che il medesimo contratto venga contato più volte nelle comunicazioni, a ogni scadenza e successivo rinnovo. Ma in un tempo breve, come un trimestre, il caso dovrebbe avere una limitata frequenza.



Il che, allora, deve indurci a non dimenticare che il Jobs Act ha avuto anche un primo tempo non di minore importanza del secondo e che la riforma del contratto a tempo determinato – nel 2014 – ha risposto a esigenze primarie delle imprese, che sono ancora prevalenti anche se questa tipologia contrattuale non ha avuto sconti e rimane più onerosa del contratto di nuovo conio di cui al dlgs n. 23/2015.

Gli altri rapporti di lavoro risultano in forte contrazione. Se è comprensibile e positivo che ciò avvenga nel caso delle collaborazioni (anche per effetto dei limiti introdotti dalla nuova disciplina), non è certo così per la “cannibalizzazione” dell’apprendistato (-18%), il rapporto contrattuale che, nelle buone intenzioni, dovrebbe costituire la strada maestra per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.

Sempre nel quarto trimestre del 2015, sono stati registrati 243.206 licenziamenti con un calo del 14,9% rispetto allo stesso periodo del 2014, pari a 42.487 licenziamenti in meno. Sono diminuiti soprattutto quelli degli uomini (-18,4%) mentre per le donne si sono ridotti del 9,3%. A questo proposito un’elaborazione interessante è stata effettuata dal Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, che ha individuato anche una ripartizione delle motivazioni dei licenziamenti stessi (poco meno del 26% per motivi economici e circa il 3% per ragioni disciplinari).

Secondo i Consulenti del lavoro, il contratto a tutele crescenti avrebbe consentito la riduzione del numero dei licenziamenti: su 100 contratti stipulati nel nuovo regime contrattuale – entrato in vigore il 7 marzo 2015 – due lavoratori in più (rispetto all’anno precedente) avrebbero conservato il posto di lavoro. Ma queste valutazioni dipendono da troppi fattori difficili da valutare con sicurezza.