È arrivato in porto il decreto interministeriale che dà attuazione al part-time lavoro/pensione previsto nella Legge di stabilità per il 2016. La normativa è nota. Viene introdotto un regime transitorio per i dipendenti del settore privato (e il discorso non riguarda, assolutamente, i datori di lavoro pubblici) che maturano entro il 31 dicembre 2018 il diritto al pensionamento di vecchiaia e che siano titolari di un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato: costoro, d’intesa con il proprio datore, possono, a condizione di aver maturato all’atto della stipula della propria variazione contrattuale i requisiti minimi di contribuzione per il diritto al predetto pensionamento, trasformare il rapporto a tempo parziale con una riduzione dell’orario complessivo in una percentuale compresa tra il 40% e il 60%. Oltre alla retribuzione relativa alla prestazione lavorativa “ridotta”, i lavoratori interessati percepiranno una somma mensile, corrisposta dall’imprenditore, pari alla contribuzione previdenziale a fini pensionistici relativa alla “parte” non lavorata. Tale importo è esente da Irpef e non è soggetto ad alcuna contribuzione. Il Legislatore, poi, riconosce per i periodi di riduzione della prestazione lavorativa una contribuzione figurativa commisurata alla retribuzione corrispondente alla prestazione lavorativa non effettuata. Quindi, l’importo della pensione non subisce decurtazioni.



Anche in questa occasione la lingua è andata – come si suol dire – alla ricerca del dente dolorante. I media si sono precipitati a parlare di “pensionamento flessibile”, magari accontentandosi di ciò che “passa il convento”. Nulla di più sbagliato. Il part-time lavoro/pensione risponde ad aspettative diverse da quelle che inducono i lavoratori ad anticipare la quiescenza, anche a costo, in quest’ultimo caso, di sopportare una qualche penalizzazione economica. Chi imbocca il percorso del part-time intende continuare a lavorare; chi cerca di andare anticipatamente in pensione vuole uscire dal mercato del lavoro, magari rientrandoci in altro modo (con un rapporto di collaborazione o in nero), con la pensione in tasca. Il decreto Poletti, dunque, può essere più correttamente iscritto nel novero delle “buone pratiche” del pensionamento attivo: un impegno difficile ma necessario, su cui si cimentano le legislazioni più avanzate e attente degli altri Paesi europei, fortemente penalizzati da trend demografici che, come i nostri, non lasciano scampo e che imporranno sempre più incrementi effettivi della vita attiva.



Sarà efficace questa norma? Le risorse stanziate nel triennio 2016-2018 sono modeste (rispettivamente 60, 120 e 60 milioni di euro) e costituiscono un massimale per ciascuno degli anni interessati. Il ministro del Lavoro ha ipotizzato 30mila accordi di conversione del rapporto di lavoro (all’anno o in tutto il triennio?). La stima sembra ottimistica, soprattutto a causa del principale limite della norma: il vincolo dell’intesa con il datore di lavoro, il quale probabilmente non avrà interesse ad assecondare i dipendenti che optano per tale soluzione, soprattutto in una piccola impresa.

L’argomento è senza dubbio delicato, ma certamente sarebbe stato più opportuno – anche rispetto al carattere sperimentale dell’iniziativa – riconoscere ai lavoratori il diritto di optare per la soluzione prevista, a eccezione delle aziende con un limitato numero dei dipendenti, in cui confermare la necessità dell’intesa con il datore di lavoro. Molto meglio, comunque, quanto previsto in un decreto del Jobs Act (dlgs n.148/2015) con riguardo alla possibilità di inserire il part-time dei lavoratori vicini alla pensione nel contesto di un accordo di solidarietà espansiva condizionato alla corrispondente assunzione agevolata di giovani. È noto, infatti, che nel decreto Poletti (che recepisce la norma della Legge di stabilità) il ricorso al part-time dei lavoratori anziani non è sottoposto ad alcun corrispettivo sul piano dell’occupazione.



Ne deriva pertanto una constatazione: perché quella forma di “staffetta generazionale” prevista dal Jobs Act non viene fatta conoscere e non si chiede conto ai sindacati del “silenzio assordante” che la circonda?

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