La caccia al precariato ha un nuovo obiettivo: il voucher. Nel 2015 ne sono stati staccati quasi 115milioni, il 66% in più dell’anno prima, con punte di crescita al Sud (+76%) e nelle Isole (+85,2%). Se ogni voucher – dicono quelli che sanno far di conto – corrispondesse a un’ora di lavoro prestato, sarebbero 57mila i posti di lavoro a tempo pieno. Sicuramente sarà così. Ma perché non porsi una diversa domanda: se non ci fossero i voucher e se il loro uso non fosse stato liberalizzato dal Governo Renzi, nell’ambito del Jobs Act, quei 57mila posti equivalenti esisterebbero o gran parte di essi sarebbe in nero?
Ma procediamo con ordine. Qual è la normativa del lavoro accessorio nel cui ambito opera il voucher come forma di retribuzione? Fanno riferimento alla nozione di lavoro accessorio quelle attività lavorative che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 7mila euro netti (9.333 lordi) nel corso di un anno. Il decreto legislativo n.81/2015 ha ampliato il raggio di azione, appunto, al limite suddetto, mentre sono 2mila netti (2.666 euro lordi) per ogni singolo committente imprenditore o professionista per il quale si lavora. Anche i percettori di prestazioni di sostegno del reddito possono svolgere attività di lavoro accessorio nel limite di compensi non superiori a 3mila euro (al lordo 4mila). In agricoltura queste attività sono consentite se svolte da giovani studenti con meno di 25 anni compatibilmente con gli impegni scolastici o da pensionati. Oppure in attività agricole in favore di soggetti che non prevedono di superare un volume di affari di 7mila euro l’anno.
Il committente acquista esclusivamente attraverso modalità telematiche uno o più carnet di buoni orari. I committenti non imprenditori possono acquistare i buoni anche presso le rivendite autorizzate. I committenti possono essere: famiglie, enti senza scopo di lucro, soggetti non imprenditori, imprese familiari, imprenditori agricoli, imprenditori operanti in tutti i settori, committenti pubblici. L’imprenditore e il professionista sono tenuti a comunicare alla Direzione territoriale del lavoro competente, prima dell’inizio della prestazione – attraverso modalità telematiche, ivi compresi sms o posta elettronica – i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore nonché il luogo della prestazione lavorativa, con riferimento a un arco temporale non superiore ai 30 giorni.
È in tale passaggio che si verificano le evasioni. Il committente ha acquistato il buono (del valore orario di 10 euro di cui 7,5 per il lavoratore), ma aspetta a compilarlo sperando che non arrivi un’ispezione (le sanzioni sono particolarmente severe). Alla fine della giornata o della serata, se l’ha passata liscia, paga il prestatore in nero.
Ovviamente si possono trovare delle forme di controllo più rigorose, ma non avrebbe senso “gettare il bambino con l’acqua sporca”, perché il pagamento tramite voucher consente vantaggi tanto per il committente quanto per il prestatore. Il primo non deve stipulare nessun tipo di contratto, ma riesce ugualmente a garantire al lavoratore sia la copertura previdenziale all’Inps, sia quella assicurativa all’Inail. Il secondo può integrare le sue entrate attraverso delle prestazioni occasionali, il cui compenso è esente da ogni imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupazione o di inoccupazione. È, inoltre, cumulabile con i trattamenti pensionistici e compatibile con i versamenti volontari.
Certo, la forma di pagamento denota anche la particolare tipologia del prestatore. Se un avvocato retribuisse la sua segretaria con i voucher o un artigiano facesse lo stesso con un suo dipendente, sarebbe più che evidente lo snaturamento delle finalità dell’istituto. Non a caso si parla di prestazioni occasionali. Il fatto che vi sia una crescita esponenziale nelle aree del Mezzogiorno denota sicuramente che i voucher hanno permesso, prioritariamente, di ridurre il lavoro sommerso. Il bicchiere è sempre mezzo pieno o mezzo vuoto. A seconda dei punti di vista.