Nei comizi del 1° maggio i leader sindacali se la sono presa con il Governo per tanti motivi, minacciando di passare – se resteranno inascoltati – “dalla proposta alla protesta”. I loro strali sono stati rivolti, con un particolare accanimento, nei confronti della questione dei voucher. È il caso, allora, di riparlarne, magari a ragion veduta sulla base di dati certi e valutando la loro distribuzione sul territorio. Ci aiuta a condurre tale esame la recente pubblicazione dell’Osservatorio sul precariato, a cura dell’Inps, riguardante il primo bimestre dell’anno in corso. 

In effetti, il fenomeno sta assumendo dimensioni che fanno riflettere. Nei mesi di gennaio e febbraio sono stati venduti 19,6 milioni di voucher destinati al pagamento del lavoro accessorio, del valore nominale di 10 euro (1,3 euro vanno alla Gestione separata dell’Inps, 0,70 all’Inail, 0,50 per il costo del servizio; il compenso netto per il lavoratore resta di 7,50 euro). La variazione in percentuale rispetto al primo bimestre del 2015 è del 45,2%, mentre in valore assoluto si è trattato di 6,1 milioni di buoni in più. 

La sequenza dei bimestri è in forte accelerazione: 7,9 milioni nel 2014, 13,5 milioni nel 2015, 19,6 milioni nell’anno in corso (da notare il salto del 71% tra i primi mesi del 2015 rispetto a quelli del 2014). L’incremento percentuale maggiore si è avuto nel Sud (+51,9%) e nelle Isole (+53,2%) nel 2016 sul 2015 (rispettivamente +86,4% e +89,1% nel 2015 sul bimestre dell’anno precedente). Mentre l’aumento più importante in valore assoluto ha interessato le aree del Nord Ovest e del Nord Est (quasi due milioni) e del Centro (un milione). 

In buona sostanza, mettendo insieme i mesi di gennaio e febbraio, 19,6 milioni di ore lavorate sono state retribuite con i voucher. Non c’è dubbio che una dimensione siffatta stride con l’idea e la funzione pensate per il lavoro accessorio. Prima, tuttavia, di lanciarsi nel solito crucifige (si sta chiedendo – udite ! udite! – il ritorno a quanto previsto in materia dalla legge Biagi da parte di coloro che l’hanno tanto criticata) e magari mettersi a rivendicare l’abolizione di questa forma di pagamento (e in sostanza di questa tipologia lavorativa) sarebbe bene approfondire il problema. 

Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Fuor di metafora: queste ore sono state sottratte al lavoro stabile o comunque meglio tutelato oppure sono state salvate dal lavoro sommerso? Chiaramente, non esiste una risposta univoca, anche se l’Inps sarebbe in grado di avvicinarsi almeno a una qualche verità parziale. Basterebbe valutare come venivano retribuiti in precedenza le persone che ora riscuotono i voucher. Se si dovesse scoprire che la maggior parte di questi era sconosciuta agli archivi contributivi, si dovrebbe anche concludere che l’operazione è servita. Immaginiamo che nelle regioni meridionali (considerando sia i valori assoluti che quelli in percentuale) le cose siano andate in direzione di un miglioramento e di una maggiore trasparenza dell’occupazione. In Campania, per esempio, la variazione percentuale per quanto riguarda il confronto tra i primi due mesi è stata pari a +69% nel 2015 sul 2014 e a +72,4% nel 2016 sul 2015. 

Trattandosi comunque di opportunità di lavoro sono ancora le regioni settentrionali le realtà in cui sono stati distribuiti più voucher nei primi due mesi dell’anno con notevoli incrementi rispetto a quelli precedenti. È in testa la Lombardia con 3,7 milioni di voucher venduti, seguono il Veneto con 2,6 milioni, l’Emilia Romagna con 2,4 milioni, la Toscana con 1,3 milioni. Marche, Lazio e Puglia stanno sotto il milione. 

Ovviamente, anche in tali situazioni sarebbe utile una controprova sulla tipologia dei precedenti rapporti di lavoro applicati, magari anche soltanto per campione. Attenzione, però, a non gettare, dopo il bagno, anche il bambino insieme con l’acqua sporca della bacinella.