Oggi, in Senato, alla presenza del Presidente della Repubblica, verrà ricordato il ventennale della scomparsa di Luciano Lama. Il leader storico della Cgil, l’erede di Giuseppe Di Vittorio che lo volle giovanissimo al suo fianco, aveva lasciato la segreteria della confederazione, dieci anni prima, nell’ormai lontano 1986. Poi era stato vice presidente del Senato (vicario di Giovanni Spadolini) e, prima di ritirarsi per una grave malattia, sindaco di Amelia, dove aveva scelto, insieme alla famiglia, il suo “buon ritiro”.
Lama è dunque una personalità cha appartiene al passato. Ma se si vuole raccontare la storia del sindacato diventa obbligatorio parlare di lui. Lama è il leader che ha imposto il sindacato tra i grandi protagonisti della vita del Paese e lo ha reso familiare agli italiani, al pari di ogni altra realtà appartenente alla loro normale quotidianità. Naturalmente, tali processi dipendevano da un complesso di fattori non tutti riconducibili al carisma e alla personalità di Lama. Anche lui, come tutti, era figlio del suo tempo.
All’inizio degli anni ‘70, quando Lama divenne segretario della Cgil, dietro la “grande marcia” del sindacalismo confederale c’era lo strappo dell’autunno caldo (del 1969), con le sue conquiste immediate e di prospettiva e, soprattutto, con quel saldo rapporto di fiducia che il movimento sindacale era riuscito a stabilire con i lavoratori, ricavandone un prestigio e una forza organizzativa senza precedenti. Si era consumata, in quella fase, una devastante rottura di tutti gli equilibri, politici, economici e nei rapporti tra le classi sociali. Sembrava a portata di mano un profondo rivolgimento degli ordinamenti istituzionali. E ciò creava forti timori in molti settori della società italiana.
Luciano Lama ebbe la capacità sia di garantire i lavoratori e di preservare la loro fiducia nell’azione riformista, graduale ed evolutiva del sindacato (contro tutte le suggestioni rivoluzionarie che poi sfociarono, come schegge impazzite, nella lotta armata e nel terrorismo che Lama contrastò con assoluta determinazione), sia di dare al Paese la certezza che la situazione era sotto controllo, in mano a persone responsabili e consapevoli, che non avrebbero permesso salti nel buio.
Questo è un aspetto poco approfondito dell’azione di Luciano Lama. Si parla tanto del ruolo di Palmiro Togliatti come protagonista, nell’immediato dopoguerra, di una conversione istituzionale del Pci all’interno delle regole democratiche. In verità, la linea di condotta del segretario comunista fu piena di ambiguità e di doppiezze; non c’è dubbio, però, che Togliatti fu il primo artefice di quella “lunga marcia” nel cuore dello Stato che consentì al suo partito di governare anche dall’opposizione. Lama si trovò a cavallo di un altro passaggio delicato. Se Togliatti dovette convincere i partigiani a cedere le armi e a rimandare la rivoluzione, Lama, vent’anni dopo, si incaricò di riportare sulla terra quella classe operaia che, nel 1969, aveva dato l’assalto al cielo.
Di Lama – comunista amendoliano, migliorista, moderato, riformista anche se lui preferiva definirsi “riformatore” – si possono scrivere voluminose biografie ricche di esperienze e di episodi che, nel bene come nel male, hanno intessuto la storia del Paese nel secolo scorso. Fu soprattutto un convinto protagonista di un grande impegno unitario, non da solo, ma insieme con gli altri “giganti” della sua epoca, appartenenti alla Cgil e alle altre confederazioni sindacali. Ed è proprio quell’impegno – portato avanti in anni in cui il mondo era diviso in due fin all’interno dei posti di lavoro e delle famiglie stesse – a dare testimonianza del profilo scadente degli attuali gruppi dirigenti sindacali, eredi inadeguati dei loro “padri nobili”. Basterebbe osservare una foto della “trimurti”, rissosa, che ora dirige le grandi confederazioni storiche: Carmelo Barbagallo nel mezzo, Susanna Camusso e Annamaria Furlan, ai lati. Per la loro età, potrebbero essere il padre e le zie di Matteo Renzi e di Maria Elena Boschi.
Non si può parlare, invece, di Lama senza ricordare la sua vocazione unitaria e richiamare il suo importantissimo contributo all’unità sindacale, a partire da quella della Cgil. Lama ricorreva, spesso, a metafore per spiegare la sua opinione. Parlava della sindrome di Tecoppa, un personaggio che pretendeva dal proprio avversario la più assoluta immobilità per poterlo infilzare comodamente. C’era, infatti, un “comune sentire” dei militanti comunisti, secondo il quale partner e alleati erano giudicati “unitari”, nella misura in cui convenivano sulle loro scelte. Per Lama, invece, i “diversi da noi” esprimevano delle posizioni legittime, con le quali occorreva misurarsi paritariamente. Guai, dunque, a fare dei processi alle intenzioni degli interlocutori; bisognava avere per i loro meccanismi decisionali il medesimo rispetto che si pretendeva per i propri. La mediazione, per lui, era il sale della politica e doveva essere una sintesi ragionevole tra diversi punti di vista tutti egualmente rispettabili. E l’unità della Cgil, poi, era un presupposto essenziale per un rapporto positivo anche con la Cisl e la Uil.
Fu, però, a metà degli anni ‘80, che l’organizzazione corse dei rischi gravissimi sul piano della tenuta unitaria. Lama riuscì a sventarli, grazie anche all’aiuto dei suoi “aggiunti” socialisti: Agostino Marianetti (un grande dirigente purtroppo dimenticato e scomparso di recente), prima, e Ottaviano Del Turco, poi. Il passaggio critico della vita della Confederazione riguardò la vicenda, anch’essa dimenticata, della cosiddetta scala mobile, un automatismo retributivo che contribuì a fare esplodere l’inflazione, a devastare le retribuzioni, a sconvolgere le gerarchie professionali, a determinare un egualitarismo innaturale che ferì a morte il potere del sindacato come “autorità salariale”. E che mise a dura prova non solo l’unità sindacale, ma anche l’unità stessa della Cgil.
Furono due anni terribili. Iniziarono nel febbraio del 1984 con il famoso “decreto di San Valentino”, il provvedimento con cui il Governo Craxi intervenne sulla dinamica della scala mobile; l’anno successivo si svolse la battaglia referendaria promossa (e persa) dal Pci per l’abrogazione del decreto convertito in legge. Ambedue queste sfide – che spaccarono il Parlamento e la sinistra – si combatterono a ogni livello nel Paese, ma la prima linea attraversava la Cgil, in cui le componenti (comunista e socialista) vivevano da “separate in casa”. Tutto sommato, la costituzione materiale della Confederazione funzionò anche in quei mesi di assoluto black-out.
Quando, contro ogni aspettativa (a prova dell’esistenza di un Paese migliore della sua classe politica) vinsero nettamente i No, il contraccolpo in Cgil fu pesante. Ma Lama impedì che il sindacato s’inviluppasse nelle polemiche e riprese in mano la situazione interna, riannodando nello stesso tempo, i rapporti con le altre confederazioni sindacali. È nei momenti particolarmente difficili che si misura la grandezza di un leader.