Il 9 giugno scorso la Covip, l’Autorità di vigilanza sui fondi pensione e sulle altre forme di previdenza integrativa (nonché sugli enti di base privatizzati) ha presentato la relazione istituzionale per l’anno 2015 a cui risulta che, alla fine dell’anno, le forme pensionistiche complementari erano 496: 36 fondi negoziali (2,4 milioni di aderenti), 50 fondi aperti (oltre 1,15 milioni), 78 piani individuali pensionistici (Pip, con circa 2,6 milioni di aderenti), 304 preesistenti (644mila aderenti) oltre al fondo residuale presso l’Inps (36,7mila aderenti). 



Merita una particolare segnalazione il trend dei Pip, dovuto a reti di vendita diffuse in modo capillare sul territorio e remunerate in base al volume di prodotti collocati sul mercato, la cui carenza è invece – ad avviso di chi scrive – il principale limite nell’adesione ai fondi negoziali. Gli iscritti complessivi – inclusi quelli ai “vecchi” Pip – erano 7,2 milioni. Per quanto riguarda la condizione professionale, 5,2 milioni erano lavoratori dipendenti privati, 1,9 milioni autonomi e libero-professionisti e 174mila dipendenti pubblici. 



Alla fine del 2015 il patrimonio delle forme complementari ammontava a oltre 140 miliardi di euro (+7,1% rispetto all’anno precedente): l’8,6% del Pil e il 3,4% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. Le risorse destinate alle prestazioni erano così ripartite: 42,5 miliardi detenuti dai fondi negoziali, 15,4 miliardi dai fondi aperti, 55,3 miliardi dai fondi preesistenti, 26,8 miliardi erano di pertinenza dei Pip “nuovi” e 6,8 di quelli “vecchi”. Nel corso del 2015 sono stati raccolti 13,5 miliardi (500 milioni in più del 2014). Dei contributi versati, 5,5 miliardi di euro sono arrivati dai flussi del Tfr (l’82% ai fondi pensione negoziali e preesistenti). È noto, poi, che nel 2015 è miseramente fallita l’iniziativa normativa che consentiva ai lavoratori di destinare il Tfr – per un triennio – in busta paga. 



Nel corso del 2015, circa 1,8 milioni di iscritti non hanno effettuato versamenti contributivi, 60mila in più rispetto all’anno precedente; rapportandosi a un totale degli iscritti salito rispetto al 2014 per effetto delle adesioni contrattuali con versamenti nel settore degli edili, la percentuale complessiva di non versanti scende dal 26,7% al 24,7%. Il fenomeno è diffuso tra i lavoratori autonomi (circa il 45% di non versanti, stabile rispetto all’anno precedente); è più contenuto tra i lavoratori dipendenti (circa il 18%, in calo di 2 punti percentuali). Per tipologia di forma pensionistica, le sospensioni contributive hanno interessato circa 1,270 milioni di aderenti a fondi aperti e Pip “nuovi” (un terzo del totale), registrando un aumento di 75mila unità nel corso del 2015; nell’insieme, gli iscritti non versanti sono stati 460mila nei fondi aperti e 810mila nei Pip. Per condizione professionale, la quota di non versanti è più elevata tra i lavoratori autonomi: 51% nei fondi aperti e 41% nei Pip. 

Di questi e altri dati è ricca la Relazione 2015 della Covip. Intendiamo però soffermarci su di un aspetto particolare che non ha avuto, nelle cronache, l’evidenza che a nostro avviso meriterebbe. Ha funzionato, e in quale misura, la procedura di silenzio-assenso secondo la quale se entro sei mesi dalla prima assunzione il lavoratore non ha effettuato alcuna scelta con riguardo al proprio Tfr, il datore di lavoro è tenuto a far confluire la quota maturanda alla forma previdenziale collettiva di riferimento per il lavoratore o, in mancanza di questa, al Fondinps? 

Come si vede nella prima tabella a fondo pagina, dall’avvio della riforma del 2007, i nuovi aderenti taciti sono stati nel complesso 258.000; rispetto al totale dei nuovi iscritti lavoratori dipendenti del settore privato, i soli interessati dal meccanismo del conferimento automatico del Tfr, la percentuale di nuovi aderenti taciti è risultata il 6%. Ai fondi negoziali sono affluiti circa 202.000 iscritti con modalità tacita, mentre residuale è stato l’apporto dei fondi aperti e di quelli preesistenti; presso Fondinps sono aperte 36.700 posizioni individuali, di cui solo 7.000 sono state alimentate da versamenti nell’ultimo anno.

In sostanza, la quota di lavoratori interessati dal meccanismo automatico del Tfr è risultata pari al 6% dei nuovi aderenti. Ciò significa che i lavoratori preferiscono decidere in proprio del destino del loro Tfr. A questo punto può essere interessante osservare come è stato allocato il Tfr dal 2007 al 2015 (i dati sono riportati nella seconda tabella a fondo pagina). 

Nel 2015 il flusso complessivo di Tfr generato nel sistema produttivo può essere stimato in circa 24,9 miliardi di euro; di questi, 13,7 miliardi sono rimasti accantonati presso le aziende, 5,5 miliardi versati alle forme di previdenza complementare e 5,6 miliardi destinati al Fondo di Tesoreria. Dall’avvio della riforma, la ripartizione delle quote di Tfr generate nel sistema produttivo fra i diversi utilizzi è rimasta pressoché costante: circa il 55% dei flussi resta accantonato in azienda, un quinto del Tfr viene annualmente versato ai fondi di previdenza complementare e il residuo viene indirizzato al Fondo di Tesoreria.