Nei giorni scorsi è stato presentato – con una relazione introduttiva del Presidente Tito Boeri – il XV Rapporto annuale dell’Inps (riferito al 2015 con alcune incursioni nell’anno in corso). Il documento è molto interessante, dal momento che non si limita a parlare delle tematiche specifiche del sistema pensionistico, ma conduce un vero e proprio monitoraggio sugli effetti delle principali leggi che hanno riguardato il mercato del lavoro, fino al “pacchetto” del Jobs Act e dei provvedimenti attuativi (attraversando di passo spedito il “museo delle cere” di tutte le questioni appartenenti al dibattito giuslavoristico e previdenziale: dal contratto a tutele crescenti, alla decontribuzione per le nuove assunzioni, fino all’Opzione donna e al “tormentone” degli esodati, a favore dei quali sono già state erogate circa 102mila pensioni sulle 127mila domande accolte). 



Il Rapporto si sofferma, puntigliosamente, su di una problematica che sta molto a cuore al volitivo Presidente, peraltro già anticipata dallo stesso in un seminario alla Bocconi. L’assillo di Boeri è il seguente: l’inasprimento delle regole sull’età pensionabile, introdotte dalla riforma Fornero, hanno bloccato il normale turnover, mantenendo in attività lavoratori anziani e precludendo l’ingresso nel mercato del lavoro di giovani. Tutta la letteratura previdenziale ha sempre negato che ci sia una correlazione effettiva tra l’uscita degli anziani e l’assunzione dei giovani, tanto che le raccomandazioni in materia (da Lisbona 2000 in poi) hanno sempre ribadito l’esigenza (non solo per garantire un equilibrio dei conti pensionistici, ma anche per rispondere al fabbisogno del mercato del lavoro) di aumentare il tasso di occupazione delle persone con età superiore a 55 anni e quello delle donne. 



Per smentire la tesi della corrispettività tra l’andata in quiescenza e le nuove assunzioni, un esperto di vaglia, come Alberto Brambilla, nel recente Convegno di Itinerari previdenziali svoltosi a Napoli, ha esposto una tabella dalla quale emerge che nei Paesi in cui è più bassa l’età effettiva del pensionamento è invece più elevata la disoccupazione giovanile. Si dirà, giustamente, che anche questa correlazione non può avere un profilo automatico. Le politiche dell’occupazione dipendono da un complesso di fattori, tra i quali è assolutamente marginale (e contingente) il ricambio giovani/anziani. Ma sulla marginalità e la contingenza non si costruiscono soluzioni strutturali in un sistema pensionistico chiamato a misurarsi con lo scorrere dei decenni. Che poi l’introduzione di uno “straccio” di flessibilità in uscita sia il volano che rimette in moto l’occupazione è talmente inverosimile da non poter essere neppure preso in considerazione. 



Ma vediamo come nel Rapporto viene presentato il problema. Il “brusco inasprimento dei requisiti ha contribuito a innalzare il tasso di occupazione fra le persone con più di 55 anni, tradizionalmente basso in Italia rispetto alla media europea. Al contempo, allontanando la data di fruizione della prima pensione per lavoratori coinvolti in esuberi aziendali e, più in generale, per persone con più di 55 anni che avevano perso il lavoro, ha creato problemi sociali rilevanti. Il numero di disoccupati tra i 55 e 64 anni è quadruplicato. 

Nel rapporto annuale 2015 è stato documentato come la probabilità di trovare un impiego alternativo per disoccupati che hanno beneficiato di un’indennità sia, in Italia, molto bassa. Utile inoltre ricordare che in questa fascia di età si è registrato, dal 2008 al 2014, il più forte incremento percentuale del tasso di povertà. 

Un altro quesito importante riguardo alle conseguenze sul mercato del lavoro della riforma del 2011 attiene ai suoi potenziali effetti sull’occupazione giovanile. È infatti possibile che, obbligando le imprese a mantenere fra i propri ranghi lavoratori, bloccati dal brusco innalzamento dei requisiti pensionistici nel mezzo di una pesante recessione e specificamente di una crisi finanziaria, questa riforma abbia reso più difficile l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani. Questo può avvenire – prosegue il Rapporto – sia perché le imprese, soggette a vincoli di liquidità, non possono ampliare i costi del personale, sia perché vengono rese meno efficienti dall’obbligo di mantenere in azienda lavoratori demotivati e dunque poco produttivi. Il quesito è rilevante alla luce dei dati aggregati su occupazione e disoccupazione per fasce di età. Dal 2010 ci sono in Italia 800.000 occupati in meno tra chi è sotto i 30 anni d’età e 800.000 occupati in più al di sopra dei 55 anni”. 

Fermiamoci su questo punto per un momento. Il Rapporto sostiene che nella fascia tra 55 e 64 anni è aumentato il numero dei disoccupati e che a quell’età è difficile trovare un altro impiego. Se è così, non è positivo che almeno 800mila soggetti appartenenti a quelle coorti siano rimasti al lavoro? Per il Rapporto si direbbe di no. “Non si tratta – commenta – di un fenomeno attribuibile alla demografia, allo spostamento verso l’alto della gobba dei baby-boomers: il tasso di occupazione (il rapporto fra occupati e popolazione nelle diverse fasce di età) era praticamente uguale fra gli under 30 e gli over 55 all’inizio della crisi. Ora è al 45% fra chi ha più di 55 anni e al 12% tra chi ne ha meno di 30. La Grande Recessione e la crisi dell’area Euro hanno portato con sé una riduzione di circa un terzo dell’occupazione tra i giovani, facendoci superare la soglia del 40% nel tasso di disoccupazione giovanile. Certo, questi sviluppi erano in parte prevedibili ed erano stati infatti previsti. In particolare, in presenza di un forte dualismo contrattuale – giovani con contratti temporanei che possono essere interrotti dal datore di lavoro senza alcun onere, lavoratori anziani soggetti a regimi di protezione dell’impiego alquanto stringenti – era legittimo aspettarsi una forte crescita della disoccupazione giovanile. È quanto avvenuto puntualmente in altri paesi a forte dualismo contrattuale, a partire dalla Spagna. Ma il dualismo contrattuale non può spiegare completamente queste dinamiche così fortemente divergenti ai due estremi della distribuzione per età dell’occupazione. È possibile che la riforma del 2011 abbia contribuito a questa divergenza”. 

Così l’Inps si è preso la briga di compiere un’indagine sul campo. “Per compiere questa valutazione, sono state raccolte informazioni sull’universo delle imprese private con più di 15 dipendenti in Italia, utilizzando i dati dei flussi delle denunce retributive, poiché era interessante analizzare l’andamento delle assunzioni di giovani prima e dopo la riforma, oltre che fra imprese che sono state investite in modo più o meno intenso dall’innalzamento dei requisiti. La rilevazione ha riguardato circa 80.000 imprese con una dimensione media di 70 addetti che sono rimaste attive per l’intero periodo 2008-2014”. 

Tralasciando di spiegare la metodologia seguita, passiamo direttamente alle conclusioni. “L’impatto dei blocchi è rilevante: 5 anni-lavoratore di blocco (ad esempio un lavoratore bloccato per 5 anni o due lavoratori bloccati per due anni e mezzo) comportano la presenza nell’impresa di un giovane lavoratore in meno. Proiettando questi risultati sull’insieme delle imprese con più di 15 dipendenti del settore privato, rimaste attive per tutto il periodo 2008-2014, si può stimare che i blocchi indotti dalla riforma del 2011, abbiano ridotto le assunzioni di giovani di circa 37.000 unità. Si tratta di circa un quarto del calo delle assunzioni di giovani registrato in questo periodo. Questi rilievi sono stati compiuti a partire da dati sulle imprese con più di 15 dipendenti. Ipotizzando che gli effetti siano stati dello stesso ordine di grandezza sulle imprese con meno di 15 addetti (peraltro soggette a maggiori vincoli di liquidità delle imprese più grandi) rimaste attive per tutto il periodo 2011-14, si può stimare un ulteriore effetto di riduzione dell’occupazione giovanile per circa 28.000 unità”. 

Tutto qui, Presidente Boeri? Se così fosse, ci saremmo un po’ ripresi con gli effetti del Jobs Act e del bonus contributivo. Come scrive il Rapporto stesso a tal proposito: “L’incremento dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato è stato particolarmente rilevante per i giovani under 30: +76% (+62% la variazione complessiva); a determinare questa differenza di performance ha contribuito l’esonero: infatti il 30% dei rapporti esonerati ha coinvolto giovani under 30 contro il 22% dei non esonerati. Nel complesso i giovani risultano destinatari del 27% delle assunzioni/trasformazioni a tempo indeterminato: nel biennio precedente 2013-2014 la quota corrispondente risultava leggermente inferiore. Sotto il profilo di genere, le donne beneficiano del 38% dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato nel 2015 (37% nel 2014); se consideriamo solo i rapporti esonerati la quota delle donne sale al 40%. Con riguardo alla cittadinanza emerge evidente che dell’esonero ha beneficiato maggiormente la componente italiana: nel 2015 gli stranieri risultano destinatari del 14% dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato (17% nel 2013 e 18% nel 2014); se consideriamo solo i rapporti esonerati la quota degli stranieri scende al 10%. La crescita dei nuovi rapporti a tempo indeterminato è stata nel 2015 nettamente inferiore per gli stranieri (+32%) rispetto agli italiani (+68%)”. 

I conti non tornano del tutto. Ma in questi frangenti ci si poteva aspettare di più?