Proseguiamo la sintesi sull’analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) sulle proposte di riforma delle pensioni. Come già detto nella prima parte, pur superiore al valore più alto che assume l’abbattimento per anno di flessibilità nella proposta “Damiano” (2%), anche il 3% della “Boeri” resta al di sotto della neutralità attuariale (come, a maggior ragione quella di Cesare Damiano). Il Focus dell’Upb, infatti, prende a riferimento un recente lavoro di Gianni Geroldi (“Gli oneri del pensionamento flessibile“), realizzato con alcune micro-simulazioni su figure tipo di lavoratori. 



Geroldi calcola quali abbattimenti sarebbero effettivamente neutrali dal punto di vista attuariale, ovvero quali correzioni manterrebbero invariato, su un orizzonte pari alla vita attesa del lavoratore, il valore attuale dei benefici. Con anticipi di quattro anni, le pensioni dovrebbero ridursi di percentuali comprese tra il 24% e il 30% del loro importo ipotetico a requisiti pieni (di età o di anzianità). Tali valori – somma delle penalizzazioni e della minore anzianità contributiva – porterebbero, secondo l’autore, a un possibile problema di adeguatezza dei trattamenti. Ma di converso emerge da queste simulazioni che sia la proposta Damiano, sia quella di Boeri sono lontane dal realizzare ambedue quell’equità attuariale che sarebbe necessaria e che viene sbandierata. Da qui gli oneri difficilmente sostenibili, prima ricordati. 



Geroldi considera anche gli abbattimenti che sarebbero neutrali dal punto di vista attuariale, ovvero quelle correzioni che manterrebbero invariato, su un orizzonte pari alla vita attesa del lavoratore, il valore attuale dei benefici netti nei due scenari alternativi: l’uscita flessibile e l’uscita a requisiti pieni. Ipotizzando un tasso di interesse nominale del 3%, l’abbattimento attuariale sarebbe pari a circa il 10% per un anno di anticipo, a circa il 16% per tre anni di anticipo, a circa il 21% per quattro anni di anticipo. 

Gli effetti sull’occupazione giovanile. A proposito del presunto effetto negativo sulle assunzioni di giovani, l’Upb ricorda le stime condotte da autori (peraltro anche dall’Inps nel suo ultimo Rapporto) che si sono cimentati con tale problema: un rinvio di cinque anni-lavoratore (ad esempio, un lavoratore bloccato per cinque anni o due lavoratori bloccati per due anni e mezzo, ecc.) implicano un giovane assunto in meno. Proiettando questi risultati sull’insieme delle imprese con più di quindici dipendenti del settore privato rimaste attive per tutto il periodo 2008-2014, gli autori stimano che la riforma del 2011 avrebbe ridotto le assunzioni di giovani di 37mila unità, circa un quarto del calo delle assunzioni di giovani registrato nel periodo (al netto ovviamente del mancato rinnovo del turnover nel pubblico impiego, che ha anche altre motivazioni). 



Non si direbbe che si sia trattato di “effetti devastanti” a fronte di un recupero alla vita attiva di lavoratori anziani. In primo luogo, secondo una parte consistente della letteratura previdenziale, le forze di lavoro di diversa età non sono omogenee per capacità e vocazioni e quindi le diverse generazioni sono complementari più che sostituibili all’interno degli organici. In questa prospettiva, un turnover generazionale incentivato o addirittura indotto da misure di prepensionamento potrebbe squilibrare la composizione delle forze di lavoro e avere effetti negativi sulla produttività. 

In secondo luogo, una più elevata spesa per pensioni si tradurrebbe, se finanziata a ripartizione (pay-as-you-go), in maggiori imposte e/o contributi obbligatori, con effetti distorsivi sia sul lato dell’offerta di lavoro, sia sul lato della domanda. Infine, si chiama in causa anche la composizione della spesa pubblica per welfare che, essendo sbilanciata eccessivamente sul capitolo pensioni per eccesso di uscite ad età basse, manca di sufficienti risorse da dedicare agli altri istituti di welfare (politiche attive e passive del lavoro, conciliazione vita-lavoro, politiche per la famiglia e le non autosufficienze, formazione, ecc.).

L’Ape e la Rita. Secondo l’Upb, la bozza di proposta governativa è chiaramente meno conveniente per il lavoratore e comporta un minore coinvolgimento dei conti pubblici. I flussi di cassa delle pensioni flessibili non proverrebbero dal bilancio dell’Inps, ma dal sistema bancario-assicurativo con costi di mercato che con ogni probabilità implicheranno, per la restituzione del prestito bancario, abbattimenti superiori alle percentuali “Damiano” (non oltre il 2% per anno) e “Boeri” (3%). All’Ape potrebbe affiancarsi la Rendita integrativa temporanea anticipata (Rita). Essa consisterebbe nel disaccoppiamento dei requisiti per l’accesso alla prestazione pensionistica tra pilastro pubblico e pilastri integrativi privati (fondi pensione e polizze assicurative a finalità pensionistica), in modo che la pensione privata divenga reclamabile con qualche anno di anticipo e possa funzionare anche da reddito “ponte” sino alla maturazione dei requisiti di vecchiaia o anzianità nel primo pilastro. Soltanto in quel momento il lavoratore sarebbe preso in carico dal sistema pensionistico che farebbe pure l’esattore della rateizzazione del prestito.

 

(2- fine)