Nonostante che di pensioni si parli sempre e ovunque, quasi sempre a sproposito, vi è un argomento che sta passando sotto silenzio: la Commissione europea, sulla scorta della giurisprudenza della Corte, ha riaperto la questione dell’uniformità dei trattamenti pensionistici tra uomini e donne nel pubblico impiego. Nel recente passato il Governo Berlusconi era stato obbligato a parificare, a tambur battente, l’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti delle pubbliche amministrazioni a quella dei lavoratori, elevandola a 65 anni entro il 1° gennaio 2012. Ciò, nonostante fosse già previsto un percorso più graduale di parificazione. L’Ue riteneva, così, di rendere finalmente giustizia alle lavoratrici italiane del pubblico impiego, ritenendo intollerabile che la “discriminazione” potesse durare fino al 2018 (com’era già stato stabilito, da noi, sulla base di provvedimenti legislativi già adottati). 



Per sostenere questa linea di condotta – limitata al lavoro pubblico – la Commissione aveva espresso la convinzione che l’anticipo della quiescenza per le lavoratrici fosse, appunto, una “discriminazione” di carattere retributivo, non riconoscendo carattere previdenziale al pensionamento nel pubblico impiego (che veniva invece riconosciuto nel settore privato, tanto che il tragitto verso l’allineamento di genere è ancora in corso). Ora – la procedura di messa in mora risale addirittura al 2013 – la Commissione europea ritiene violati l’art. 157 del Trattato Tfue e gli artt. 5, 7 e 14 della Direttiva 2006/54/CE. L’art. 157, stabilendo che la” retribuzione” dei lavoratori deve essere uguale per gli uomini e per le donne, include, ad avviso delle istituzioni comunitarie, nel concetto in questione non solo il salario, ma tutti i “vantaggi” economici che il datore corrisponde al lavoratore in ragione “dell’impiego di quest’ultimo”. 



La Corte Ue ha poi precisato (C-262/88) che la “retribuzione” ricomprende anche le erogazioni pensionistiche, purché relative a regimi “professionali” e non legali. I primi ricorrono quando: 1) i beneficiari della pensione siano considerati come una particolare categoria di lavoratori; 2) la pensione sia rapportata al periodo di servizio prestato; 3) l’importo della pensione sia calcolato in base all’ultimo stipendio del lavoratore. Ora, il predetto art. 5 della Direttiva ribadisce il divieto di diversificare, a seconda del sesso dell’avente diritto, le condizioni di accesso al godimento delle pensioni “professionali”. L’art. 7, poi, qualifica regime pensionistico “professionale” quello dei dipendenti pubblici, quando la pensione trovi la sua ragione direttamente nel rapporto di lavoro con l’Amministrazione stessa. Infine, l’art. 14 sottolinea, ancora, che non sono ammesse discriminazioni, da un sesso all’altro, per quanto riguarda la “retribuzione”, intesa in senso estensivo, fino al trattamento pensionistico. 



Con tale normativa, secondo la Commissione, è in contrasto l’art. 24, comma 10 del Decreto Legge convertito con Legge 22/12/11, n. 214 (la cosiddetta riforma Fornero). Detto articolo collega il diritto alla pensione “anticipata” – quella, cioè, pagabile prima che il titolare raggiunga l’età richiesta per la pensione di “vecchiaia” – a condizioni diverse, in relazione al sesso del percipiente. In particolare, le donne possono accedere alla suddetta pensione “anticipata” con il pagamento dei contributi per 41 anni e 3 mesi, laddove agli uomini è richiesto il più impegnativo requisito dell’anzianità contributiva di 42 anni e 3 mesi (questi requisiti, nel frattempo, sono stati aggiornati in base all’adeguamento automatico all’attesa di vita). 

Una tale discriminazione, secondo la Commissione, contrasterebbe con le sopra menzionate norme Ue, in quanto le pensioni dei dipendenti pubblici atterrebbero a regimi “professionali” e, come tali, dovrebbero soggiacere al principio di uguaglianza di genere, anche con riguardo, come nella fattispecie, ai presupposti per l’accesso al trattamento pensionistico. Per converso, le Autorità italiane hanno replicato, non in maniera infondata, che il regime pensionistico dei dipendenti pubblici, come definito attualmente dall’ordinamento italiano, risulta di tipo “generale” e non “professionale”, in quanto: 1) per l’art. 21 della stessa L. 22/12/11, n. 214, a decorrere dall’1/1/12, i dipendenti pubblici non dispongono più di un ente previdenziale specifico, in quanto le funzioni dell’Inpdap – già ente per le pensioni dei pubblici dipendenti – sono state assorbite dall’Inps, che risulta attualmente investito di una competenza previdenziale “generale”; 2) con la L. 08/08/95 n. 335, la pensione non viene più calcolata, almeno pro quota, in riferimento alle retribuzioni percepite alla fine dell’attività lavorativa (era l’ultimo stipendio mensile prima delle riforme), ma in rapporto ai contributi versati durante l’intero corso di tale attività. 

Ma questi argomenti, già sostenuti nel 2011, non sono stati ritenuti sufficienti da parte dell’Ue, per cui si annuncia una procedura d’infrazione se non interviene un adeguamento normativo nel senso richiesto. Resta solo da notare una notevole differenza, di carattere in primo luogo culturale. Da noi si farebbero carte false per consentire alle donne di andare in quiescenza il più presto possibile, mentre in Europa tale opportunità viene vista – almeno nel pubblico impiego – come un’inaccettabile capitis deminutio

C’è da ritenere, in conclusione, che l’allineamento di genere per il requisito del trattamento anticipato di vecchiaia, avverrà a livello di quello degli uomini. In questo modo vi saranno anche dei risparmi, mentre, con un processo inverso, occorrerebbe reperire delle importanti coperture, dal momento che aumenterebbe la spesa perché si consentirebbe ai dipendenti pubblici maschi di andare in pensione prima. Anche nella Pa sono gli uomini ad avvalersi maggiormente della pensione anticipata/di anzianità.