Con i “chiari di luna” che si annunciano in autunno (mancata crescita e suoi effetti sui conti pubblici, richiesta di un ulteriore margine di flessibilità da parte dell’Ue, esigenza di disincagliare un’economia che ha perso l’occasione fornita, nel 2015, da una “finestra” di ripresa) è bene mettere in chiaro che non è il caso di sprecare risorse preziose a inseguire priorità che non sono tali e che possono servire, tutt’al più, a racimolare qualche consenso elettorale in occasione del referendum.
Quando parliamo di cattivo impiego di risorse intendiamo riferirci – lo diciamo con chiarezza – ai problemi aperti sul terreno delle pensioni e che sono stati oggetto di un confronto tra governo e sindacati (la Confindustria, anche se ormai asservita alla linea dell’esecutivo dopo la decisione di votare Si al referendum, non se la fila nessuno). Occorre imparare a dire la verità: non vi è una coincidenza automatica tra stato di povertà e condizione di pensionato. Certo vi sono – e tanti -pensionati poveri, ma, in generale il reddito degli anziani e, nello specifico, quello dei pensionati, ha affrontato e retto la crisi meglio di tante altre categorie, come testimoniano, inequivocabilmente e univocamente, molte ricerche e statistiche ufficiali di varie istituzioni.
Abbiamo avuto occasione di ricordare su queste pagine che in un universo composto di 16 milioni di nostri concittadini vi è di tutto: anche situazioni di grande disagio, laddove all’età si aggiungono condizioni di non autosufficienza e di disabilità. La legge dei grandi numeri, però, conferma che vi sono maggiori condizioni di difficoltà nelle famiglie monoreddito con figli minori a carico. In sostanza, per quanto riguarda gli italiani, un minorenne su 10 vive in condizione di povertà assoluta. Nella popolazione tra 18 e 34 anni si è passati dal 3,1% del 2005 al 9,9% di oggi. Dai 35 ai 64 anni dal 2,7% al 7,2%. L’incidenza della povertà diminuisce solo tra gli over 64 (4%). In 20 anni il reddito di questi ultimi è cresciuto del 18%, mentre quello degli under 34 è calato di 11 punti. La ricchezza è cresciuta del 60% per gli over 64 anni ed è crollata nella stessa misura per gli under 34. Eppure, l’84% delle prestazioni assistenziali (quelle destinate a combattere l’emarginazione e a promuovere l’inclusione) è riservata agli anziani.
Si fa un gran parlare del numero di pensioni integrate al minimo (nel 2016 circa 502 euro per tredici mensilità) e dei soggetti condannati a vivere con un reddito limitato a livello di tale istituto, dimenticando spesso che il due numeri (quello delle prestazioni e quello riguardante i pensionati) non coincidono, essendo il secondo pari a un quarto del primo. Così pure si finge di ignorare che un pensionato privo di altri redditi percepisce dal sistema (tra assegno di base e maggiorazioni sociali) 638 euro mensili (un importo non troppo lontano da quei 700 euro di reddito di cittadinanza preconizzato dal M5S).
Nel confronto tra Governo e sindacati sono stati esaminati diversi problemi: dall’Ape (l’acronimo di Anticipo pensionistico), alla gratuità della ricongiunzione tra spezzoni contributivi versanti in differenti regimi; dall’estensione della cosiddetta quattordicesima, a favore di taluni settori, alla conferma dell’Opzione donna, fino ad alcune agevolazioni – per quanto riguarda l’età pensionabile – per i lavoratori precoci (coloro che hanno iniziato a lavorare in giovane età) e per quelli sottoposti a mansioni usuranti. E ovviamente è iniziata la solita guerra delle cifre: si è parlato di oneri variabili da 1,5 miliardi a 3,5-4 miliardi l’anno.
Nessuno si è sbagliato a fare i conti: la prima cifra rappresenta quanto il Governo ritiene (sarebbe meglio dire “riteneva”, a questo punto) di poter stanziare per migliorare le pensioni, mentre la seconda costituisce quanto sarebbe necessario per dare una risposta, almeno parziale, a ciascuno dei temi posti all’ordine del giorno. Non a caso – limitandosi a rivendicare uno stanziamento di 2-2,5 miliardi – i sindacati si predispongono a condividere delle priorità. Alla ripresa, però, risulterà evidente che i margini si sono ulteriormente ristretti, per tante ragioni. E il nostro Paese non sarà in grado di ottenere dall’Ue maggiori spazi di flessibilità al solo scopo di aumentare la spesa pubblica in un campo, come quello delle pensioni, che viene considerato, a Bruxelles, tra i più insidiosi a fronte della crisi fiscale degli Stati membri, delle incertezze dei trend occupazionali e delle attese demografiche.
Ecco perché il solo provvedimento destinato a vedere la luce è l’Ape, proprio per il suo scarso impatto sui bilanci pubblici e per la sua caratteristica di non mettere in discussione i capisaldi della riforma Fornero. L’Ape consisterà in un prestito garantito dalla futura pensione (una sorta di cessione del quinto anticipata e rimborsabile in 20 anni). Il meccanismo si svolgerà sotto la regia dell’Inps, ma i protagonisti saranno – oltre ai soggetti interessati – gli istituti di credito e di assicurazione. Il sistema previdenziale prenderà in carico il pensionato – che ha voluto anticipare l’esodo – soltanto quando maturerà interamente i requisiti anagrafici previsti dall’ordinamento.
Questa misura potrà anche scongiurare il ricorso a un’ottava salvaguardia per i cosiddetti esodati, a cui sta lavorando un Parlamento sensibile ad accogliere, in modo bipartisan, tutte le rivendicazioni che scaturiscono da un Paese i cui cittadini ambiscono ad andare in pensione il più presto possibile.