Una delle questioni aperte nelle prossime settimane riguarda i rinnovi contrattuali del pubblico impiego. Com’è noto, la Consulta – con sentenza n.178/2016 – ha dichiarato l’illegittimità di un ulteriore blocco della contrattazione di settore che prosegue ininterrotto dal 2010 (decreto legge n.78 dello stesso anno). Ma la soluzione non è a portata di mano, per tanti motivi. C’è, innanzitutto, un problema di disponibilità delle risorse occorrenti. La Legge di stabilità per il 2016 ha stanziato, a tale titolo, solo 300 milioni: quanto basta per erogare unicamente l’indennità di vacanza contrattuale.

Non è la prima volta che, in vista di un rinnovo, vengono previste risorse inadeguate, individuate e indicate al solo scopo di segnare una posta di bilancio, salvo prevedere i successivi adeguamenti tramite una variazione, una volta concluse le trattative. In questo caso, però, è molto complicato reperire quei miliardi ritenuti necessari da parte dei sindacati visto il contesto di finanza pubblica, aggravato dalle conseguenze del terremoto del 24 agosto scorso. Ma ci sono altri aspetti che rendono complesso il quadro del negoziato.

I decreti Madia, per esempio, stanno cambiando lo stato giuridico del personale, ampliando l’ambito di intervento legislativo rispetto a quello contrattuale (come aveva già fatto la riforma Brunetta nel 2009). In linea con l’evoluzione dell’ordinamento, sono stati ridefiniti, poi, i comparti di contrattazione: ciò pone l’esigenza di riaggregare coerentemente i soggetti sindacali affinché siano in condizione di riaffermare la rappresentatività del personale all’interno dei nuovi comparti (in numero minore dei precedenti). Lo stesso discorso vale per i Comitati di settore in cui sono aggregate le pubbliche amministrazioni, partner del negoziato.

La questione dei rinnovi contrattuali del pubblico impiego non è solo complessa, ma anche abbastanza cruciale per l’equilibrio dei conti pubblici, in una situazione in cui la richiesta all’Ue di una maggiore flessibilità non può essere giustificata da un incremento della spesa pubblica corrente per stipendi e pensioni. Soprattutto quando gli effetti del blocco della contrattazione nazionale e decentrata e della stessa evoluzione della retribuzione individuale sono stati superiori alle attese e alle stesse previsioni. In proposito, è interessante leggere la Relazione 2016 della Corte dei Conti sul costo del lavoro pubblico.

Sintetizzando i principali dati riportati nel documento, risulta che i redditi da lavoro dipendente, nel 2015, si sono attestati su di un valore pari a 161,7 miliardi, con una diminuzione (che la Relazione definisce “sorprendente”) di un punto percentuale, rispetto all’anno precedente. Il dato cumulato dal 2010 vede una riduzione della spesa per redditi da lavoro dipendente di quasi 11 miliardi (-6,3%), correlato altresì all’adozione di misure di contenimento del turnover. Al 31 dicembre 2014 i pubblici dipendenti con contratto di lavoro a tempo determinato erano 3.219.000 concentrati per oltre l’80% nella scuola, nella sanità, nelle regioni e negli enti locali, nel comparto sicurezza-difesa. Secondo la Ragioneria generale dello Stato – in sede di rendicontazione del 2015 – ci sarà un decremento dell’1% (nonostante l’aumento delle assunzioni a tempo indeterminato nella scuola). Dal 2008 al 2014, gli occupati nella PA sono diminuiti di quasi 7 punti percentuali.

La Corte dei Conti, poi, richiama nella sua Relazione il giudizio che il Country Report 2015 dell’Ue ha rilasciato circa le perduranti criticità del pubblico impiego in Italia, per quanto attiene alla produttività e all’efficienza del lavoro. Concorrono a determinare tali criticità l’eccessiva anzianità del personale (dovuta al blocco del turnover), la mancata reingegnerizzazione dei procedimenti, la scarsa qualificazione dei dipendenti (sono poche le posizioni per le quali viene richiesta una laurea), la prevalenza di una cultura giuridica (a scapito di professionalità specifiche), la marginale attenzione data alla valutazione del merito e agli incentivi economici destinati a migliorare la produttività, i forti condizionamenti della politica sull’attività amministrativa e (poteva mancare?!) una diffusa corruzione ambientale.