Nella riffa delle pensioni, l’unica certezza è costituita dall‘Ape, ovvero da quel marchingegno che dovrebbe consentire il pensionamento anticipato – più o meno di tre anni rispetto all’età di vecchiaia – attraverso l’erogazione di un prestito rimborsabile tramite il circuito bancario, sotto la regia dell’Inps (mentre, come vedremo, è meno sicuro l’intervento delle assicurazioni in caso di premorienza del soggetto debitore). Per quanto riguarda i contenuti è necessario usare ancora cautela, dal momento che le soluzioni “ballano” persino nel centro di comando che, dal ministero del Lavoro si è spostato (ma non è la prima volta che accade, anzi rappresenta la normalità per l’attuale Governo) a palazzo Chigi. Ulteriore confusione è opera dei media, condannati dal vincolo di fornire notizie aggiornate e costretti quindi a inseguire tutte le voci provenienti dai palazzi del potere, a volte a scopo di depistaggio. Vediamo, allora, di fare il punto senza avere la pretesa di saperne di più di quanti hanno le mani in pasta nell’inesauribile tormentone delle pensioni.
Innanzitutto, come si calcola l’Ape? In primo luogo bisogna partire da quella che è la sua natura: non è una pensione, ma un prestito erogato da una banca, rimborsabile in 240 rate mensili gravanti sulla pensione a partire dal momento in cui il soggetto interessato la maturerà al raggiungimento dell’età di vecchiaia. Il Governo non vuole confusioni su questo punto: se si tratta di un prestito non sorgerebbero quelle difficoltà con l’Ue che si determinerebbero nel caso di una pensione anticipata. Logica vuole che, una volta accertati i requisiti anagrafici e contributivi di ammissibilità (63 anni e almeno 20 di versamenti contributivi), il prestito sia definito sulla base di quanto ha maturato il lavoratore al momento della domanda. Successivamente, al momento della sua liquidazione, dall’importo della pensione saranno detratte le rate dell’Ape, nonché gli interessi relativi e gli oneri di carattere assicurativo. Ad alleggerire l’operazione nel suo complesso, a favore dei trattamenti più modesti o dei casi di maggior disagio, dovrebbe provvedere un beneficio di carattere fiscale.
Tutto ciò premesso, i lavoratori interessati riscuoteranno il prestito erogato da un circuito esterno al sistema previdenziale, dal quale saranno presi in carico soltanto all’atto del perfezionamento dei requisiti previsti dalla legge (la riforma Fornero, grazie a Dio, non sarebbe toccata). Certo, l’ammontare del prestito starà inevitabilmente all’interno di quanto maturato dal lavoratore al momento della richiesta dell’Ape. Il lavoratore aderente a una forma di previdenza complementare potrebbe, poi, implementare, alle condizioni previste, il proprio reddito attraverso Rita, ovvero mediante la liquidazione della quota maturata secondo il metodo della capitalizzazione, alla quale sarebbero riconosciute agevolazioni fiscali in relazione agli anni di versamenti effettuati.
Se non ci fosse un coinvolgimento del sistema assicurativo nel garantire la restituzione del prestito in caso di insolvenza o di premorienza dell’interessato (per chi scrive sarebbe più logico e coerente un trasferimento degli oneri residui sul trattamento ai superstiti) occorrerebbe comunque provvedere a un diverso meccanismo di garanzia: per esempio, l’eventuale istituzione di un Fondo di solidarietà come quello vigente per il pagamento del Tfr (ci sarebbe, ugualmente, l’esigenza di organizzare una forma di copertura, inevitabilmente onerosa, visto che pure in tale circostanza vige il principio per cui “nessun pasto è gratis”).
Si pone, poi, un altro problema molto serio, a proposito del quale corrono interpretazioni differenti. La persona che, disponendo dei requisiti richiesti, presenta domanda dell’Ape deve aver risolto il rapporto di lavoro? E solo in caso di licenziamento o anche di dimissioni? Pare che sia tuttora all’esame dei tecnici la possibilità di consentire il cumulo tra la riscossione dell’Ape e il proseguimento di un’attività lavorativa (la stessa con il medesimo rapporto di lavoro? Con un diverso rapporto? Oppure con un’attività del tutto nuova e diversa?).
Chi scrive considera molto pericolosa una soluzione siffatta, in tutte le sue ipotetiche articolazioni. Si correrebbe il rischio di ripetere – mutatis mutandis – la disastrosa esperienza del bonus Maroni rivolto a chi, nel 2003, accettava di rinviare il pensionamento di anzianità. A costoro furono trasferiti in busta paga gli importi corrispondenti all’intera aliquota contributiva in forma esentasse. Peraltro, alla conclusione del periodo previsto a costoro era consentito di proseguire il lavoro come se nulla fosse accaduto. In quell’occasione, soprattutto i percettori di redditi elevati incassarono delle vere e proprie “fortune”. Anche adesso potrebbero verificarsi situazioni analoghe. Un lavoratore in grado di percepire una discreta pensione avrebbe la convenienza ad avvalersi, anticipatamente, dell’Ape (e della Rita), magari continuando a lavorare alle stesse precedenti condizioni economiche. Per di più, questa scelta gli consentirebbe di riscuotere, al momento della pensione, un trattamento ragguagliato non solo a un più elevato coefficiente di trasformazione, ma basato anche su di una maggiore anzianità contributiva, con un importo che potrebbe compensare, almeno in parte, la “tangente” della restituzione dell’Ape.
Si sostiene però che la possibilità di continuare a lavorare sia connaturata con la logica del prestito, di cui sono protagonisti e titolari due soggetti privati: il lavoratore che fornisce garanzie con la sua futura pensione e l’istituto di credito che eroga la prestazione.