Una cosa pare certa: l’Ape (l’acronimo di Anticipo Pensionistico) sarà la misura centrale contenuta nella prossima Legge di stabilità in tema di previdenza. La circostanza sembrerà singolare perché l’Ape non ha nulla da spartire con il sistema pensionistico, essendo un prestito bancario rimborsabile (sia per la quota del capitale che per gli interessi) attraverso rate ventennali sulla pensione ordinaria che viene percepita al momento (e solo allora) della maturazione dei requisiti anagrafici e contributivi previsti dalla riforma del 2011. Il prestito potrà consentire (in presenza di un’anzianità contributiva di almeno vent’anni) l’uscita dal lavoro tre anni prima dell’età di vecchiaia e sarà praticamente gratuito (perché deducibile dalla base imponibile dell’Irpef) per i percettori di trattamenti medio-bassi e per coloro che si trovano in condizioni personali, lavorative e familiari di particolare disagio.
Il dominus dell’operazione (già, in parte, immaginata da Enrico Giovannini, il ministro del Lavoro del Governo Letta) dovrebbe essere l’Inps in convenzione con il sistema bancario e assicurativo (una partita complessa tutta ancora da impostare). Come si può vedere, si tratta di un disegno che nulla ha da spartire con i progetti di flessibilità in uscita che, come nel caso di quello più noto a prima firma Damiano, prevedono la possibilità di andare in quiescenza, con un meccanismo di incentivi e disincentivi del 2% annuale, in una fascia d’età compresa tra i 62 e i 70 anni, ma confermano nello stesso tempo l’uscita di sicurezza – senza vincoli anagrafici, né agganci automatici all’attesa di vita – con 41 anni di versamenti.
In attesa di capire come finirà la vicenda della riforma pensioni dopo il confronto con i sindacati (e quali altre modifiche dell’ordinamento accompagneranno l’Ape), siamo andati a spulciare – in un dossier del luglio scorso predisposto dal Servizio Documentazione e ricerche della Camera – come viene affrontata e risolta questa complessa tematica negli altri Paesi europei (non solo i 27 dell’Ue), anche per verificare se è proprio vero che Elsa Fornero ci ha lasciato il sistema pensionistico più severo del Continente.
Va onestamente riconosciuto che “uscite di sicurezza” anticipate sono generalmente presenti negli ordinamenti degli altri Paesi. Qui si presenta un primo vistoso handicap. Charles De Gaulle affermava, riferendosi alla Francia, che non è impossibile governare un Paese in cui si producono più di 400 tipi di formaggio. Figurarsi la difficoltà quando si tratta di tanti diversi sistemi pensionistici, dal momento che ciascun Paese – compresi il Liechtenstein e l’Islanda – ha il suo. Si tratta, allora, di una grande Babele delle norme che rende impraticabile rinvenire linee comuni (salvo ovviamente la presenza di più o meno importanti processi di riordino sotto la spinta della crisi fiscale degli Stati, della recessione economica e, soprattutto, dei trend demografici in atto e attesi).
In linea di massima, nei casi in cui l’età del pensionamento di vecchiaia è flessibile, ovvero ricompresa in un range da un’età minima a una massima (Finlandia, Irlanda, Norvegia, Svezia), non esiste la pensione anticipata; un istituto non previsto, in alcuni casi (Regno Unito, Paesi Bassi), anche laddove non è disposta alcuna flessibilità in uscita. Vi sono poi dei casi in cui il pensionamento anticipato è corredato di requisiti molto severi. In Germania, per esempio, la pensione anticipata senza detrazioni è possibile soltanto all’età di 63 anni a condizione di aver maturato 45 anni di contributi, inclusi quelli figurativi riconosciuti. Sono previste possibilità di uscita (in casistiche particolari) con requisiti più favorevoli, a fronte, tuttavia, di penalizzazioni economiche.
Più articolata la normativa francese. Ecco che cosa prevede, in caso di pensione anticipata , lo Schema generale per i dipendenti (régime génerale d’assurance vieillesse des travailleurs salariés, Rgavts): lunga carriera: tra i 56 e i 60 anni di età, a seconda dell’anno di nascita, dell’età in inizio di attività, della durata di assicurazione e dei contributi; grave disabilità: tra i 55 e i 59 anni, subordinato al compimento del periodo minimo di assicurazione e contribuzione; lavori “usuranti”: a partire dall’età di 60 anni con una incapacità di almeno il 20% a causa di un infortunio sul lavoro, o con l’incapacità tra il 10% e il 20%, a condizione che derivi da una minima esposizione ai fattori di rischio professionali. Quanto ai Regimi complementari per i lavoratori dipendenti (Arrco) e per i dirigenti (Agirc): età compresa tra i 55 e i 57 anni con un coefficiente di anticipazione secondo l’anno di nascita o senza coefficiente se l’assicurato ha ottenuto la pensione di base a tariffa piena.
Solitamente più generosi – soprattutto nella fase di transizione – sono i regimi dei Paesi dell’Est europeo. Un’analisi superficiale ci porterebbe a ritenere che essi partissero da situazioni simili costruite durante la loro appartenenza al blocco sovietico. Se così era, oggi ognuno ha preso la sua strada. La Slovacchia ha un sistema diverso da quello della Repubblica Ceca, la Slovenia dalla Croazia. Gli Stati baltici vanno ognuno per proprio conto.
Che altro aggiungere? Il Vecchio continente è fiero del suo Welfare state e soprattutto dei sistemi pensionistici che difende a oltranza, spesso oltre ogni logica economica e demografica. Eppure – parafrasando Marx ed Engels – avrebbe da perdere solo le proprie catene.