Il Governo e le confederazioni sindacali riprendono il confronto sospeso lo scorso 28 settembre con un verbale di sintesi in materia di previdenza e assistenza dove erano tracciati i contenuti dei provvedimenti che hanno poi trovato posto nella Legge di bilancio. Per fortuna, la crisi di Governo intervenuta dopo il voto del 4 dicembre ha portato all’approvazione – da parte del Senato – del medesimo testo votato dalla Camera in prima lettura. Così non sono state introdotte ulteriori misure di aggravio del bilancio previdenziale e della spesa pubblica. Immaginiamo che Governo e sindacati parleranno dei principali problemi aperti: dall’ordinaria amministrazione riguardante i dpcm chiamati a completare le norme della legge di bilancio che disciplinano l’Ape alle soluzioni che il ministro del Lavoro intende proporre in materia di voucher.

Poi c’è il grande punto di domanda riguardante gli aspetti della cosiddetta “Fase II”, molto più impegnativa di quanto finora previsto essendo finalizzata a favorire una maggiore flessibilità in uscita all’interno del sistema contributivo, anche con una revisione del requisito del livello minimo di importo (ora 2,8 volte l’assegno sociale) per l’accesso alla pensione anticipata; a valorizzare e a tutelare il lavoro di cura a fini previdenziali; a valutare la possibilità di differenziare o a superare le attuali forme di adeguamento per alcune categorie di lavoratrici e lavoratori in modo da tenere conto delle diversità nelle speranze di vita nell’ambito del necessario rapporto tra demografia e previdenza e mantenendo l’aggancio alla speranza di vita. Poi, sempre in tale nuova fase annunciata c’è l’oggetto misterioso della “pensione contributiva di garanzia”, che dovrebbe, nelle intenzioni, “mettere in sicurezza” l’avvenire pensionistico dei giovani.

Le circostanze hanno voluto che il secondo tempo del negoziato si aprisse alla luce di due importanti documenti che hanno affrontato il tema delle pensioni e più in generale del welfare, lanciando – per chi è responsabilmente attento a recepirlo – un segnale d’allarme sull’andamento dei conti dell’Inps che è ormai divenuto l’asso pigliatutto del nostro sistema di sicurezza sociale (con la sola esclusione della sanità e dell’assicurazione contro gli infortuni su lavoro e le malattie professionali). Si tratta della Relazione istituzionale al Parlamento sull’Inps della Corte dei Conti e il Rapporto n. 4 sul Bilancio del sistema previdenziale italiano a cura di Itinerari previdenziali, il Centro di studi e ricerche promosso da Alberto Brambilla.

Sia la Relazione che il Rapporto analizzano il bilancio consuntivo del 2015 che è, allo stato degli atti, il solo documento a cui sia possibile riferirsi, visto il calendario delle scadenze per la predisposizione dei bilanci preventivi e consuntivi. Il risultato economico d’esercizio (il saldo tra il dare e l’avere dell’anno) è negativo per 16,3 miliardi di euro (contro il -12,5 miliardi del 2014). La situazione patrimoniale netta (ovvero la somma algebrica della sequenza storica degli avanzi e dei disavanzi) ha ancora il segno positivo per 5,8 miliardi. Andando a verificare gli andamenti dei fondi e delle gestioni più importanti scopriamo che il Fondo lavoratori dipendenti ha un passivo di 0,57 miliardi a cui si aggiunge il “rosso” per 8 miliardi degli ex fondi speciali (elettrici, trasporto locale, telefonici) e dell’ex Inpdai (dirigenti di imprese industriali), mentre le gestioni dei lavoratori autonomi (coltivatori, artigiani e commercianti) presentano un disavanzo complessivo di poco inferiore a 13 miliardi. L’ex Inpdap (la gestione della previdenza del pubblico impiego) ha un disavanzo, nell’anno in esame, di 4,4 miliardi; la situazione patrimoniale è negativa per 5,7 miliardi. L’avanzo più consistente (7,5 miliardi) è quello della Gestione separata, per un fatto molto semplice: essendo stato istituito nel 1996, ha più iscritti che pensionati.

Non è comunque in discussione l’erogazione delle pensioni che è garantita dalla Tesoreria dello Stato anche in regime di disavanzo (a meno che il Paese non vada a gambe all’aria). “In quanto l’Istituto è struttura dello Stato – conferma la Corte – la pensione dei lavoratori e le stesse prestazioni assistenziali sono, nei limiti previsti dalla legge, da questo garantite e la sostenibilità del sistema non può che fare rinvio al bilancio dello Stato e al consolidamento dei conti nazionali”. Sarebbe, quindi, opportuno riflettere a lungo prima di introdurre ulteriori deroghe all’impianto di cui alla riforma Monti-Fornero del 2011.

Sappiamo che il disegno dei “revisori” della riforma è quello di ripristinare – col pretesto della flessibilità del pensionamento – il trattamento di anzianità. In questa direzione vanno anche i principali provvedimenti (soprattutto la normativa riguardante i lavoratori precoci) contenuti nella Legge di bilancio. Anche le salvaguardie (ben 8) per gli esodati hanno prodotto in larga misura pensioni di anzianità secondo i previgenti criteri. Come ricorda la Relazione della magistratura contabile, l’incidenza media delle pensioni “salvaguardate” sul flusso delle nuove pensioni di vecchiaia e anzianità liquidate dall’Inps (escluse quelle dei lavoratori pubblici) si attesta nel 2014 su una percentuale del 14,7% e nel 2015 dell’11,1%.

Il Rapporto Brambilla – tra i tanti aspetti utili – fornisce dei dati molto interessanti a proposito della tipologia delle pensioni e della loro distribuzione territoriale. Nelle regioni del Nord (45,75% di popolazione sul totale Italia) prevalgono le pensioni di anzianità (che in genere sono le più elevate avendo una media di 37 anni di contribuzione contro i 22 scarsi della vecchiaia), scarsamente presenti al Sud dove prevalgono carriere lavorative discontinue, spesso assistite (prestazioni di sostegno al reddito, giornate ridotte in agricoltura), con periodi di lavoro irregolare e con scarse contribuzioni. Il gap tra Nord e Sud si riduce di circa 10 punti percentuali per le pensioni di vecchiaia che al Sud, a riprova di quanto affermato più sopra, sono integrate al minimo nel 79% dei casi (contro il 52% del Nord e il 57% del Centro). Al Sud, con il 34,36% degli abitanti, le pensioni di vecchiaia e anzianità presentano distribuzioni percentuali inferiori a quella della popolazione mentre prevalgono le pensioni di invalidità (45,68% del totale) e le assistenziali (45,57%) con un tasso, in rapporto alla popolazione residente, quasi doppio rispetto al Nord. Il Centro (19,89% di popolazione sul totale) presenta una distribuzione in linea con quella della popolazione.

Ovviamente anche per effetto della numerosità delle prestazioni assistenziali al Sud si pagano molte più prestazioni ai superstiti rispetto a Centro e Nord. La dimostrazione della correlazione diretta si evince ancor più esaminando i due casi limite: in Lombardia, ad esempio, per ogni 100 prestazioni erogate 58,6 sono di vecchiaia (di cui 32,1 di anzianità con storie contributive medie di circa 37 anni di contributi); 19 sono prestazioni ai superstiti, 3,1 di invalidità e solo 19,3 assistenziali. In Calabria su 100 prestazioni solo 36,5 sono di vecchiaia (di queste solo 13,8 sono di anzianità); 17,6 ai superstiti, 9,4 di invalidità (oltre il triplo della Lombardia) e 36,4 assistenziali. Inoltre, al Sud, una buona parte delle pensioni di vecchiaia è integrata al minimo, perché ottenuta a fronte di storie contributive modeste.