I grandi media – non solo negli Usa – hanno offerto una lettura strettamente politica della pronuncia della Corte Suprema statunitense a favore della libertà religiosa in tempi di Covid. Il caso era stato aperto da due ricorsi d’urgenza presentati dalla diocesi di Brooklyn e dalla congregazione Agudath Israel dello stesso borough di New York. Il verdetto che ha dichiarato illegittime le restrizioni imposte anche ai luoghi di culto dal governatore (democratico) dello Stato di New York, Andrew Cuomo, è stato emesso con 5 voti favorevoli contro 4: quindi con il sì decisivo della justice Amy Coney Barrett, designata da Donald Trump poco prima delle recenti elezioni presidenziali.



Per i commentatori liberal è stato naturale riconcentrarsi subito sulle polemiche che hanno accompagnato la nomina di Barrett – cattolica su posizioni conservatrici in campo sociale – dopo la scomparsa di Ruth Bader Ginsburg, israelita laica newyorchese, per quasi trent’anni considerata la justice più progressista e radicale fra i 9 della Scotus. Molte voci – nella fase decisiva della campagna per la Casa Bianca – hanno accusato Trump di voler forzare uno squilibrio strutturale – “6 a 3” – a favore di un nominale campo “repubblicano/conservatore” nell’organo di massima garanzia costituzionale degli States. Dettaglio solo apparentemente di colore: Trump – poi sconfitto da Joe Biden – ha contratto il Covid con ogni probabilità durante la cerimonia di investitura di Barrett alla Casa Bianca, criticata come “negazionista” perché poco rispettosa degli standard anti-Covid.



La pronuncia 20A87 sembra suscitare riflessioni più articolate: anche sul versante politico. Anzitutto: il paventato “6 a 3” non c’è stato per la significativa adesione del chief justice John Roberts al fronte dissenziente. Roberts – designato dal repubblicano George W. Bush – è noto per il suo background conservatore (ad esempio è anti-abortista e lontano da ogni ambientalismo ideologico). Sul file Brooklyn ha deciso tuttavia di essere al fianco di Sonia Sotomayor: figlia di portoricani del Bronx, prima justice nominata da Barack Obama. Quest’ultima è sembrata nell’occasione più attenta alle ragioni politiche della storica egemonia democrat nello stato di casa piuttosto che a quelle civili dei concittadini, parimenti immigrati, della confinante Brooklyn (inequivocabile il cognome del vescovo, Nicolas DiMarzio).



Lo stesso Roberts è parso muoversi tatticamente, una volta chiaro che la maggioranza della Corte era a favore del ricorso: è sembrato sensibile al pressing politico-mediatico liberal, cogliendo l’occasione per inviare un segnale al presidente eletto (il prossimo 20 gennaio Biden giurerà su una storica Bibbia proprio nelle mani del capo della Corte Suprema). Ed è sembrato certamente preoccupato, Roberts, di annacquare nello score il fatto che la sua Corte abbia deciso a rovesciare nei fatti la posizione assunta sul tema appena sei mesi fa. Già in epoca Covid, Scotus aveva infatti respinto (5 a 4) ricorsi analoghi presentati da due chiese evangeliche in California e Nevada. Il chief justice anche in quell’occasione si era unito all’ala più liberal della Corte nell’affermare un primato di fatto delle normative sanitarie civili su ogni pretesa avanzata in base al Primo Emendamento della Costituzione: quello che dal 1791 pone la libertà di parola, di culto e di critica al governo come cardine della democrazia americana.

Vi sono pochi dubbi sul fatto che Roberts abbia voluto marcare una sua personale coerenza – di “repubblicano ante-Trump” – nel mantenere una posizione che già in primavera aveva odorato di anti-trumpismo: essendo notoriamente le chiese evangeliche statunitensi una primaria costituency elettorale del presidente uscente. In concreto la pronuncia di novembre è andata a concedere a cattolici e israeliti della East Coast ciò che era stato negato agli evangelici del West. E cattolici ed ebrei newyorchesi – peraltro – sono stati a lungo roccaforti del voto democratico: come d’altronde altre storiche comunità d’immigrazione. Oggi si sono invece ritrovati frontalmente – sul terreno cruciale dei “diritti civili” – contro l’establishment tecnocratico dem: lo stesso che ha spinto Biden alla riconquista della Casa Bianca. 

Tutto questo è comunque maturato dopo uno scontro tutt’altro che superficialmente politico all’interno della Corte. Anzi: il confronto sulla libertà religiosa è stato occasione non banale per far emergere anche nella suprema magistratura le fratture profonde che attraversano la società americana. Il vero “avvocato” delle istituzioni religiose di Brooklyn è stato Neil Gorsuch, il primo dei tre giudici nominati da Trump. È stato lui – originario di una famiglia cattolica del Colorado –  a sparare ad alzo zero fin dalle prime righe della sua opinion: “Le autorità di governo non possono disattendere il Primo emendamento in tempi di crisi. Come minimo l’emendamento proibisce alle autorità di trattare l’esercizio delle religioni in termini peggiori di quelli riservati ad attività secolari”. E più oltre: “Lo Stato di New York ha scelto di non imporre restrizioni su alcune attività economiche definite ‘essenziali’. Fra queste: grandi magazzini, laboratori di agopuntura e spacci di alcolici… stando al Governatore, può essere più rischioso andare in chiesa o in sinagoga che andare a comprare una bottiglia di vino”.

Sono evidenti i due nodi – intrecciati – della questione che “20A87” ha voluto sciogliere. Il primo: un decreto di un’autorità di governo non può mai disporre brevi manu di una norma della Costituzione in vigore. Un’emergenza può imporre misure eccezionali, ma quello che certamente è inammissibile (illegittimo, incostituzionale) è sospendere in corsa – senza discuterne – norme della Carta alla base dello stato di diritto. Si può e si deve discuterne: attraverso gli istituti e le procedure previsti dalla legalità democratica. A Gorsuch è attribuito un passaggio particolarmente tagliente: la prima ondata Covid avrebbe mandato la Costituzione “in vacanza”, ma ad essa non può essere concesso un intero “anno sabbatico”.

Il seconda tema non meno importante, è invece squisitamente di merito. La Costituzione Usa sancisce la laicità dello Stato ma tutela con la stessa forza la libertà religiosa: diritto “essenziale” dell’individuo e fondativo della società statunitense, mai messo in discussione in 244 anni. È un profilo identitario posto sotto crescente pressione critica dalla culture war dichiarata da un trentennio dalla Politically Correctness. Ed era destino segnato per le confessioni religiose finire bersaglio privilegiato (forse ultimo) della cancel culture: scatenata contro tutto ciò che – per anatema inappellabile di academy e media  liberal – viene condannato come “discriminatorio”. Ora la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel novembre 2020, ha affermato senza equivoci che chi vuole “cancellare” la libertà religiosa – anche per ragioni gravi – è fuori dalla Costituzione. Almeno da quella ininterrottamente tutelata dagli ultimi 45 presidenti.