Allentato in qualche modo il braccio di ferro al Congresso sull’aumento del debito federale, negli Usa democratici e repubblicani potranno ora iniziare davvero la lunga campagna elettorale verso le presidenziali 2024. Joe Biden confermerà la volontà di ricandidarsi? Donald Trump, al pari, terrà fino in fondo il campo alla ricerca di una rivincita del 2020? La Casa Bianca – nella fase storica più difficile dopo il 1945 – sarà occupata da un ottantenne? E quale sarà la risposta degli elettori alle primarie che prenderanno il via all’inizio dell’anno prossimo? Quanto è realistica la scommessa – molto anticipata – del giovane governatore repubblicano della Florida Ron De Santis? E con Biden in corsa le primarie “dem” saranno davvero una pura formalità, popolata al massimo di “promesse” per il 2028 e oltre?



“La democrazia americana è a rischio”, ha ripetuto nei giorni scorso Hillary Clinton, sconfitta da Trump nel 2016, paventando un ritorno di The Donald. Ma la “crisi della democrazia” appare lo scenario storico corrente su scala globale: con un ritrovato Occidente che narra la nuova confrontation geopolitica con Russia e Cina come scontro fra liberaldemocrazie e autocrazie. Nel frattempo, però, a Washington si guarda con apprensione al voto nelle aule del Campidoglio sul compromesso “centrista” fra Biden e lo speaker repubblicano della Camera Kevin McCarthy. In attesa di conoscere i dettagli dell’accordo su debito e spesa, si temono già le reazioni dei parlamentari trumpiani ma anche quelle dei “dem” radicali.



Su questo sfondo – di “democrazia malata” secondo larga parte degli osservatori – si vanno tuttavia tratteggiando figure e dinamiche inattese: un po’ sintomi di una crisi reale, un po’ indicatori diagnostici. Elon Musk è un nome che non ha bisogno di didascalie; ma anche Jamie Dimon, Ceo di JPMorgan Chase, ormai il più grande gruppo bancario americano.

Il mitologico quanto discusso fondatore di Tesla ha già suscitato un dibattito prepotente sul futuro della “democrazia digitale” quando ha acquisito Twitter. Negli ultimi giorni ha dato profilo politico definitivo al suo identikit appoggiando la pre-candidatura di De Santis: cioè dello sfidante interno di Trump, tycoon attempato e classico. Dimon – personaggio già semileggendario a Wall Street per essere sopravvissuto al crack del 2008 – ha invece salvato in prima persona l’Amministrazione Biden dalla pericolosissima crisi apertasi sul fronte bancario interno per le ripercussioni del rialzo dei tassi a contrasto dell’inflazione, accesa dalla guerra russo-ucraina. Giocando a ritmo forsennato vari ruoli (da consulente della Casa Bianca e delle banche coinvolte oppure investitore finale) il capo di JPMorgan ha lavorato pressoché a tempo pieno per mettere in sicurezza Silicon Valley Bank, Signature Bank e infine First Republic: acquisita quest’ultima direttamente da Dimon, che controlla oggi la più importante fetta del mercato bancario degli States.



E se fra Wall Street e Washington molti nasi si sono arricciati per l’emergere di un “banchiere egemone” – nella patria della competizione di mercato – non è mancato chi ha visto nel Ceo di JPM qualcosa in più di un classico e noto “banchiere amico” dei democratici. A fianco di un Biden vecchio, debole (anche nel consenso interno) e poco sostenuto dalla vicepresidente Kamala Harris, Dimon pare stagliarsi come un “grande fratello”: una figura che – dovesse approdare come segretario al Tesoro in un’amministrazione Biden-2 (l’incarico gli era già stato offerto da Trump nel 2016) – potrebbe perfino recitare da “co-presidente” nella prospettiva di un abbandono del presidente nel corso del mandato, di cui già si sussurra.

Può sorprendere che sia Musk che Dimon siano in queste settimane alle cronache per i legami presunti con il caso Epstein, il “padre di tutti gli scandali” oltre Atlantico? Addirittura, il finanziere morto misteriosamente in carcere (dopo aver fatto lobbying indifferentemente per Barack Obama, Hillary Clinton e Donald Trump) avrebbe fatto da tramite fra Musk a JPMorgan. Uno dei primi luogotenenti di Dimon avrebbe invece partecipato ai festini di Epstein, quelli che hanno inguaiato personaggi come il principe Andrea d’Inghilterra o Bill Gates.

Comunque, se Dimon è il Potere Tradizionale (la finanza globale, peraltro molto ammaccata), Musk personifica il Nuovo Potere della Tecnologia Digitale, peraltro sotto crescente attacco politico-culturale (esemplare la parabola di Fred Zuckerberg, a lungo vociferato di ambizioni politiche come anti-Trump).

Non è la prima volta che la democrazia americana deve fare i conti con l’emergere di figure “iperpotenti” dal mondo degli affari. Anzi: una sorta di “rifondazione” del Paese ebbe luogo poco più di un secolo dopo la Dichiarazione del 1776. Nel 1890 gli Usa si dotarono per la prima volta di una normativa antitrust. La sigla è oggi sinonimo stretto di “tutela della concorrenza”, ma lo Sherman Act fu varato – letteralmente – per contrastare i “trust”: le grandi concentrazioni di potere industriale, finanziario e mediatico cresciute ormai al punto da esercitare condizionamenti pesanti sulla vita politica nazionale. Gli annali ricordano che fu un senatore repubblicano del Midwest industriale – John Sherman – ad alzare muri legali fra big business e governo degli Stati Uniti. E che uno dei più importanti trust della storia americana face capo a John Pierpont Morgan.

P.S:: In un’editoriale sulle prossime elezioni europee – sempre nel 2024 – il direttore di Repubblica Maurizio Molinari ha riflettuto (correttamente) sull’apertura strategica di gioco operata dal Ppe verso Ecr, il partito di destra presieduto da Giorgia Meloni. E appare condivisibile l’attesa che Meloni – fra Italia ed Europa – colga l’occasione per “spegnere la fiamma tricolore”: per accelerare la transizione “post-fascista”di Fdi anche a stimolo di leader europei come l’ungherese Viktor Orban o il polacco Mateusz Morawiecki. Dove il column appare meno convincente è quando enfatizza le divisioni interne ai popolari tedeschi (fra Martin Weber, cristiano sociale bavarese attuale leader del Ppe e Frederich Merz, che ha ereditato la guida della Cdu da Angela Merkel dopo la disfatta elettorale del 2021). Da un giornale come Repubblica sarebbe lecito attendersi un’analisi sulla situazione (tutt’altro che confortante) delle euro-sinistre verso il voto 2024 e non solo la speranza che sia il banchiere-tecnocrate Emmanuel Macron – assediato all’Eliseo dalle sinistre francesi – a contenere con i liberali di Renew Europe la probabile avanzata di Ppe e Ecr a Strasburgo.

Più forzato e strumentale – ma nella fisiologia del giornalismo politico – sembra il tentativo di candidare direttamente il vicepremier italiano Antonio Tajani alla successione di Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Ue. Non vi sono dubbi che un dato della partita in corso sia la prospettiva di ritorno di un italiano a un ruolo di peso a Bruxelles: proporzionalmente supportato dai voti che Ecr riuscirà portare a ogni ipotesi di coalizione più o meno grande all’europarlamento. Tajani – esponente del vertice Fi (Ppe), ex presidente a Strasburgo, ex commissario all’Industria a Bruxelles e ministro degli Esteri in carica a Roma, ha tutte le carte in regola per un incarico e un ruolo ben più consistente rispetto a Paolo Gentiloni, quasi impercettibile nell’ultimo quadriennio nell’esecutivo Ue. Ma è assai probabile che alla sua portata realistica sia una vicepresidenza esecutiva con deleghe pesanti (come quelle ricoperte oggi da Frans Timmermans o Margrethe Verstager) nell’ambito di un accordo ampio articolato fra leader di euro-partito e capi di governo (Meloni è la sola a riunire entrambi i ruoli nel Consiglio Ue).

Si può star certi che la Premier italiana firmerebbe in partenza per un esito simile: più di quanto lo sia stata Angela Merkel nel 2019 nel veder planare a Bruxelles la sua ministra von der Leyen. Difficilmente potrebbero invece essere soddisfatti i lettori di Repubblica. Dove peraltro, tardano a comparire nomi e strategie di socialisti e verdi. Europei e italiani.

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