Un mix di sollievo e anche di moderata speranza sta caratterizzando in questi giorni l’Italia. I giorni più cupi della pandemia sembrano allontanarsi con una campagna vaccinale che ha sconfitto anche la loggia dei virologi menagramo e le prime stime di un rimbalzo economico, per il prossimo anno e mezzo, rimettono almeno in moto un sistema economico che pareva ferito a morte e che comunque dovrà fare i conti con un debito del 160% rispetto al Pil: praticamente un debito pubblico da dopoguerra.
Ma, di fatto, la durissima prova dell’anno 2020 e dei primi quattro mesi del 2021 sembra superata. In fondo, anche ricominciare daccapo può essere bello e spesso più stimolante che in passato.
Tuttavia, reso onore al merito di un Paese che pareva tramortito dall’inazione e dall’incapacità di una classe dirigente inconsistente, adesso occorre guardare alla realtà (esercizio per alcuni quasi volgare) e progettare azioni credibili e incisive per il futuro, per un rilancio della sviluppo economico e per consolidare una democrazia che è apparsa, negli ultimi trent’anni con un crescendo impressionante, sempre più fragile nei suoi aspetti di partecipazione, di rappresentatività e di decisione.
Dietro l’angolo del ritorno alla normalità ci sono due “bombe” da neutralizzare attraverso riforme di carattere politico, istituzionale, economico e culturale. La prima riguarda l’agguato messo in atto da poteri irresponsabili, al ritmo di un capitalismo finanziario da casinò, per riproporre uno sviluppo equilibrato, attraverso un’azione coordinata tra pubblico e privato, che ponga fine a diseguaglianze insopportabili e pericolosissime per la vita sociale di una comunità.
La seconda “bomba” da disinnescare è il riequilibrio dei poteri istituzionali, con la necessità magari di una nuova Costituente che ridisegni partecipazione, rappresentanza e decisione, secondo i metodi classici della democrazia occidentale, con tutte le iniezioni di novità che comporta lo sviluppo di una società moderna.
Ma attenzione, è vietato barare. Questa volta l’antico aforisma-principio politico del principe di Salina “che tutto cambi perché nulla cambi”, non vale più, non serve più. Anzi, riproporlo sarebbe pericolosissimo.
Caliamoci quindi nella realtà italiana. Anche se ci sarà il rimbalzo economico al ritmo del +4% nel prossimo anno e mezzo, non è ipotizzabile un riassorbimento altrettanto rapido della disoccupazione, delle povertà, delle diseguaglianze sociali e della rinascita di alcune imprese stroncate dalla pandemia. Il problema diventerà palese con la fine del blocco dei licenziamenti, con la fine della cassa integrazione e con gli impegni necessari per affrontare le scadenze di un debito pubblico da ripianare in molti anni.
Restare ancorati alle leggi del liberismo sfrenato e, nelle fasi di crisi, alle politiche di austerità (magari non accorgendosi che rispunterebbero ancora gli esodati) sarebbe il metodo migliore per far esplodere una “bomba” sociale incontrollabile.
Forse qualcuno, in questo benedetto Paese, non si è ancora accorto che Lega e M5s sono incominciati a decollare elettoralmente dopo l’avvento del decantato governo Monti-Fornero, che ha scaraventato il Paese in depressione ed è stato letteralmente irriso da economisti come Paul Krugman e altri, che hanno sempre combattuto lo strapotere delle banche d’affari e la supremazia della finanza. Il successo di M5s è stato in fondo una risposta carica di rabbia e rancore.
Non si sa bene se quella lezione sia stata compresa. Oggi gli economisti più innovatori, quelli che hanno seguito e poi aggiornato lo stesso John Maynard Keynes, che risolse la crisi del 1929 documentata da un carteggio personale con il presidente Franklin D. Roosevelt, si rifanno al discorso dell’altro grande presidente americano John F. Kennedy tenuto il 12 settembre 1962, quando gli Stati Uniti si prefissero l’obiettivo di raggiungere la Luna, cosa che fecero con la missione “Apollo 11”. Per raggiungere quel traguardo fu necessario mettere in campo nuove forme di collaborazione tra pubblico (la Nasa) e il privato, insieme a investimenti di carattere straordinario. Altro che finanziarizzazione, derivati e futures!
Ma questa strada non sarebbe probabilmente utile, al di là di metodi e possibilità diverse, per affrontare i gravi problemi di questo tempo, tra epidemie, disoccupazione, diseguaglianze sociali devastanti?
Mariana Mazzucato, una grande economista dei nostri tempi, ritiene che bisognerebbe creare nuove forme di partnership tra pubblico e privato. Significa ripensare a come strutturare i bilanci statali per orientarli più esplicitamente al lungo periodo. Significa investire coraggiosamente su lunga scala e utilizzare l’innovazione, fino a ieri impiegata solo per generare profitti privati, a fini sociali.
È una strada nuova, a cui dovrebbero dedicare almeno un pensiero sia gli imprenditori che i sindacati del futuro. Finora, in Italia, si è assistito solo a una contrapposizione dura tra Confindustria e sindacati, alcuni sproloqui di improvvisatori e nessuna linea da seguire concretamente. Solo con Mario Draghi si è vista almeno la possibilità di rispettare gli impegni del Next Generation Eu, che sembra tuttavia fragile rispetto alle grandi necessità che si presentano di fronte a noi.
L’altra “bomba” da disinnescare è quella istituzionale, con una particolare attenzione a quella giudiziaria. Un grande giurista come Sabino Cassese spiega che “lo strapotere dei pm viola la Costituzione”. Cassese precisa riguardo ai pm italiani: “Questi hanno sviluppato un nuovo potere dello Stato che certamente va oltre il dettato costituzionale. Pensi soltanto a quella norma dell’articolo 111 della Costituzione secondo la quale la persona accusata di un reato è ‘informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico’. Le pare una norma rispettata?”
La domanda retorica di Cassese metterebbe sotto inchiesta più di trent’anni di violazioni messe in atto da quelli che sono sempre stati chiamati i “clan mediatico giudiziari”. Di fatto, quando una persona è indagata in Italia può essere quasi mediaticamente linciata. Si potrebbe rifare un pezzo della storia italiana dal 1992 a oggi e ci sarebbe da ridere tragicamente.
Fermiamoci ancora su una precisazione di Cassese, che riguarda il modo di muoversi del governo Conte in periodo di pandemia. “Un’errata gestione con le Regioni che ha trasformato l’Italia in un potere ad Arlecchino. L’incertezza dell’indirizzo politico. Le molte parole e i pochi fatti. L’adozione continua di norme incomprensibili. L’imprevidenza (non si poteva partire prima con i vaccini?). L’abuso dei Dpcm. L’accentramento a Palazzo Chigi per non fare”.
Perché è avvenuto tutto questo? Per una questione culturale, radicata e imposta a livello popolare nell’Italia postfascista e del dopoguerra. In questo Paese non si ricorda e non si onora mai il vero capo della Resistenza, Alfredo Pizzoni. Forse i giovani non lo conoscono neppure, perché era il Presidente del Cln (Comitato di liberazione nazionale) e non era comunista. Così come non si ricordano Mattei e Parri. Come spiega Ugo Finetti in un grande libro, La Resistenza cancellata.
L’Italia paga il fatto di essere stata il paese occidentale con il più grande partito comunista del mondo. La cultura di quel partito si è riversata in quasi tutte le istituzioni ed ha resistito, rabbiosamente, anche dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, quando l’Italia aveva già bisogno di una grande riforma istituzionale.
Il camuffamento, sotto altro nome, della cultura marxista-leninista, quella che Enrico Berlinguer rimproverava a Giorgio Amendola (e a tanti riformisti presenti nel Pci) di non conoscere (1979) e l’ipocrisia della sinistra cattolica (forse nostalgica del cardinal Carafa) ha portato prima a un qualunquismo giudiziario che nulla ha a che fare con i principi di una democrazia occidentale.
Poi, la bandiera dell’austerità, della legalità in chiave moralistica, si è trasformata in questi ultimi trent’anni in un vessillo impugnato da qualunquisti e basta, che ritengono ad esempio che la divisione delle carriere in magistratura sia un lascito di Licio Gelli e della P2, trasformando così in “piduisti” uomini come Bissolati e Merlino, Calamandrei e Carnelutti, fino a Giovanni Falcone, che ha sempre spiegato la necessità della separazione della carriere per non confondere legalità con komeinismo.
Sono naturalmente “piduisti” anche tutti i Paesi democratici occidentali. Persino il Portogallo, uscito dal salazarismo, ha fatto i salti mortali, nel suo sistema giudiziario, per imporre la divisione tra giudice e pubblica accusa.
Come reagirà l’Italia a questa prova? A questa riforma complessiva della giustizia che l’Europa aspetta? È giusto fare delle mediazioni come stanno tentando Mario Draghi e la guardasigilli Marta Cartabia, ma non bisogna esagerare troppo in questa materia, altrimenti si rischia di essere giustizialisti o garantisti a tempo, mentre l’unica cosa che occorre in una società democratica è la certezza del diritto, non quella della pena (deriva lessicale di qualunquismo giudiziario).
Possiamo dire, comunque, che la confusione con cui si affronta questa riforma ha svelato che su questo punto, con la separazione della carriere, Matteo Salvini è più europeista di tanti altri sedicenti europeisti. Paradosso tipicamente italiano.
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