Il sindacato dei lavoratori dell’auto negli Usa ha appena vinto una grande controffensiva strategica – dopo decenni di declino – rompendo ogni collateralismo politico (anzitutto quello storico con i democratici). È rapidamente diventato un caso di studio nelle università d’Oltre Atlantico e una grande vertenza in cui, più che simbolicamente, era impegnato anche il gruppo Fiat (con Stellantis) e può essere una lente utile per leggere in controluce le mosse delle ultime ore dei sindacati italiani.
Ai picchetti dello Uaw – davanti alle grandi fabbriche in sciopero di Gm, Stellantis e Ford – si sono fatti fotografare sia il presidente “dem” Joe Biden sia il suo ri-sfidante repubblicano Donald Trump. Ma Shawn Fain, leader dei car workers in lotta, non ci ha badato troppo. Pur essendo discendente di immigrati irlandesi da sempre vicini ai “dem” e da sempre impegnati nel sindacato contro i tycoon repubblicani, si è sempre concentrato sulla direzione di una campagna durissima, esclusivamente rivendicativa. Sulla chiarezza degli obiettivi che hanno via via legittimato la campagna sul mercato del lavoro e nell’opinione pubblica; sul consolidamento interno della sua organizzazione e sull’uso innovativo dell’antico strumento dello sciopero.
In otto mesi di scontro lo Uaw non ha cercato l’appoggio dei grandi giornali “liberal”, che hanno dato infatti molto più spazio alla (fallita) controffensiva ucraina contro la Russia. La “guerra” sindacale dell’auto si combatteva negli Stati elettoralmente contendibili del Midwest, ma non risultava facilmente comprimibile nella crociata politico-mediatica contro Trump. È stato semmai il conservatore Wall Street Journal a riservare crescente attenzione: quando la tattica Uaw di interruzione elastica delle diverse linee di produzione è andata a colpire prima e più del previsto i conti delle Big Three e le prospettive dei loro investimenti nell’auto elettrica. Alla fine i grandi gestori di fondi di Wall Street sono stati decisivi nel dare via libera ai top manager di Detroit per accettare – praticamente in toto – le richieste del sindacato e non mettere ulteriormente a rischio le quotazioni dei titoli. Niente politica, solo business.
Nel frattempo, mano a mano che l’escalation ha rafforzato la credibilità della leadership sindacale e l’attesa di esiti tangibili per i lavoratori, lo Uaw ha visto crescere i propri iscritti. La questione dei “bassi redditi” è bollente e trasversale nella società americana, lacerata dalle diseguaglianze (questione dolente sia per Trump, che nel suo quadriennio ha mancato solo l’obiettivo di alzare i redditi più bassi; sia per Biden, cui non è riuscito di mantenere la promessa elettorale di aumentare per legge il salario minimo). Ma Fain è stato sempre attento a non politicizzare la sua battaglia. Semmai sono oggi i politici – tutti – che inseguono lo Uaw. E il suo leader – lungi dal volersi candidare per la Casa Bianca – sta continuando a fare il suo mestiere: alzando l’asticella verso Tesla (Elon Musk è in sé target ad alto profilo politico) e dando forza laterale ai tentativi di sindacalizzare le relazioni in aziende-Paese come Amazon o Starbucks. Se non ai lavoratori di Hollywood.
Fain è il primo a sapere che la sua forza – potenzialmente in futuro come politico – sarà generata o mantenuta esclusivamente dalla sua capacità attuale di sindacalista di tutelare gli interessi dei lavoratori sul mercato. Per questo non ha mai detto ai suoi iscritti in sciopero a oltranza che lo Uaw stava difendendo la democrazia in America. Nel suo format, il punto critico non è l’esercizio politico-legale del diritto di sciopero, ma il suo uso concreto – efficiente ed efficace – nella difesa stretta dei diritti e degli interessi reali dei lavoratori. La controparte – gli avversari – sono i datori di lavoro. E sul tavolo ci sono jobs da difendere o da creare, retribuzioni, polizze sanitarie e piani previdenziali (certamente anche la sicurezza sul posto di lavoro). Per questo si può scioperare anche otto mesi. Alla fine dei quali i lavoratori e i loro sindacati possono vincere o perdere. Ma la posta in gioco è chiara il primo giorno come lo è l’esito del match l’ultimo giorno.
Una premessa forse troppo lunga, con tutte le differenze fra Usa e Ue. Ma sembra diametralmente opposto l’intero sentiero imboccato dal leader della Cgil Maurizio Landini, “primus inter pares” fra le organizzazioni sindacali. Era già programmato per ieri un ennesimo sciopero nel settore dei trasporti pubblici: quello di per sé già – parecchio “politico” – di un grande monopolio statale come quello ferroviario. E altrettanto “politica” era la motivazione di fatto: rintuzzare il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, che nelle ultime settimane ha contestato il protrarsi quasi interminabile di una filiera di scioperi – locali o nazionali – quasi sempre di venerdì, giornata strutturalmente critica per l’intero sistema-Paese.
Quasi senza preavviso reale, i sindacati hanno aggiunto in corsa anche la giornata di giovedì: ufficialmente per protestare contro l’incidente in Calabria in cui ha perso la vita una ferroviera. Una motivazione che anche il Garante ha riconosciuto legittima, pur invitando i dipendenti Fs a limitare l’agitazione di giovedì a otto ore, con un intervallo di almeno quattro ore rispetto all’inizio del secondo sciopero.
Il risultato è stato comunque il caos, alla vigilia del primo weekend di dicembre, in tutte le stazioni della Penisola: piene, al solito, di viaggiatori appiedati e incerti sulla possibilità di raggiungere casa o destinazione di lavoro anche nelle 24 ore successive. Il riflesso mediatico è stato evidente, Landini ha insistito sullo sciopero ferroviario per colpire il datore di lavoro, cioè lo Stato. Cioè il Governo: a sua volta accusato di presunte “svolte autoritarie” quando solleva il problema delle agitazioni sindacali a forte sfondo politico nei servizi pubblici.
È tuttavia un fatto che Landini brandisca lo sciopero sempre meno contro i datori di lavoro privati ai tavoli rivendicativi e sempre più contro il Governo in quanto politicamente “nemico”. Il leader Cgil non preme su Giorgia Meloni e sui suoi ministri per avere certezze sulle politiche di contrasto all’inflazione, in particolare per le bollette energetiche (un campo in cui, fra l’altro, lo Stato e gli enti pubblici locali sono ancora azionisti di larga maggioranza di utilities grandi e piccole). Landini non ha contestato l’abolizione del reddito di cittadinanza, dopo essere stato nei fatti neutrale sulla sua introduzione (quella di M5s era il contrario di una politica sviluppista dell’occupazione e per il Sud, ma il Conte 2 aveva nei fatti realizzato il “campo largo della sinistra”). Landini si è ben guardato dal cavalcare il PNRR (troppo sgradita la firma di Mario Draghi) come piattaforma per il rilancio dell’occupazione (nemmeno in ricalco sul PNRR). Non chiederà mai, Landini, un Jobs Act 2.0: gli è bastato che l’unica vero guizzo di una sinistra riformista sia stato smontato dal populismo antagonista di M5s.
Nel frattempo, l’unico settore dove un grande contratto è stato aggiornato è stato quello bancario: dove i sindacati autonomi stradominano su quelli confederali e sul tavolo sono stati messi solo sostanziosi aumenti retributivi e tutele occupazionali. Il governo avrebbe voluto prelevare una parte degli extra-utili realizzati dalle banche, anche con il fine di evitare penalizzazioni troppo troppo estese alle rivalutazioni anti-inflazione delle pensioni. Niente: l’importante è stato contestare la manovra del Governo di centrodestra, intestarsi in parte la retromarcia sulla tassazione delle banche e ignorare i pensionati “non sociali. L’importante è riempire – ma sempre meno – le piazze sindacali, mentre quelle di Pd o M5s si svuotano. E questo anche a costo di riempire le stazioni di italiani (fra cui molti lavoratori) esasperati. Arrabbiati alla fine con Landini e con i sindacati. Certamente riconosciuti dalla Costituzione, come il diritto di sciopero, ma sempre meno legittimati: sul piano politico e su quello sindacale.
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