Le Borse, si sa, spesso esagerano. È così anche stavolta? Come spiegare una frana di queste proporzioni per il listino di Piazza Affari e, soprattutto, per i rendimenti dei titoli di Stato a fronte della conferma di un prossimo aumento del costo del denaro di un quarto di punto, peraltro anticipato da settimane? 

Le Borse il più delle volte vedono lungo. Il brusco ribasso, accompagnato dai toni di Christine Lagarde, ben più rigida che in altre occasioni, sta ad attestare che, dopo undici anni di tassi bassi e politica accomodante delle autorità monetarie, il clima è cambiato. E le conseguenze promettono di essere spesse. Specie per noi. Per più ragioni.



– La retorica populista che ha ampiamente alimentato la politica italiana di questi anni ha fatto passare in secondo piano il fatto che ad acquistare i titoli del debito pubblico italiano sia stata proprio la Bce, in base al piano Pepp che si chiuderà a fine mese. 

– Il debito torna a essere la grande zavorra del Paese, alla faccia di chi puntava a nuovi interventi a sostegno di consumi e categorie a carico del bilancio. Al contrario, la frenata della crescita si traduce in ulteriore emergenza: nei prossimi mesi, secondo le ultime proiezioni della stessa Bce, l’Italia è destinata alla crescita zero contro un debito in crescita. E le cose in futuro potrebbero peggiorare: in media fino al 2032 l’Italia ha il maggior bisogno di prestiti lordi in Europa (oltre un quarto del Pil all’anno) e fra dieci anni può avere il debito pubblico più alto (oltre il 160% del Pil).



– A peggiorare le cose è stata l’assenza nel discorso di madame Lagarde di accenni a misure in grado di evitare la “frammentazione” del debito evitando quel che è puntualmente avvenuto, cioè l’allargamento dello spread tra i titoli tedeschi e quelli del Sud Europa, Italia in testa. 

– Forse, sbagliando come spesso le capita, la presidente della Bce ha voluto tenere celate le carte a sua disposizione. Ma così facendo ha semplicemente trasmesso la sensazione che oggi alla Bce governano i falchi. Ovvero, lo spirito del whatever it takes di Mario Draghi, a suo tempo decisivo per salvare l’euro dopo la crisi greca, ha lasciato il posto all’incertezza abituale dell’Europa dei compromessi. Non solo in politica monetaria, ahimè.



– L’inflazione, lo spettro che giustifica l’aumento dei tassi, non nasce in Europa dal boom dei salari e degli investimenti, come sta succedendo negli Stati Uniti, ma è frutto della tassa che la guerra di Putin, così come in passato il Covid, ha imposto alle nostre economie. La soluzione sta nel coordinamento degli sforzi e in una risposta coordinata che faccia appello a tutte le risorse per abbassare il costo dei danni per l’embargo dell’energia e per la necessità di rivedere le catene logistiche. 

– Ci vuole insomma una risposta politica che preveda tra l’altro un tetto ai prezzi del gas, in linea con quanto fatto da Bruxelles per abbassare il costo dei vaccini. È quanto chiede l’Italia. È un’arma assai più efficace di un nuovo programma Pepp o di altre soluzioni monetarie: non basta una manovra sui tassi per contrastare l’effetto dei cannoni di Putin. 

– Non c’è da sperare in un aiuto dalla finanza Usa, alle prese con un’inflazione ancora in crescita (+8,6% a maggio) e con le perplessità suscitate dal colpevole ritardo con cui si sono mossi i banchieri centrali, non meno colpevoli del direttorio della Bce. I prossimi rialzi dei tassi, oltre a strangolare l’economia e ad avvicinare la recessione, anticipano un pessimo risultato per Joe Biden al prossimo voto. E spunta il rischio che il mondo, già pieno di guai, debba vedersela di nuovo con Donald Trump. 

– Insomma, motivi di ottimismo non se ne vedono. Ma è in momenti come questi in cui è importante far ricorso alle proprie energie. Per l’Italia questo significa innanzitutto capire che, così come non si può fare a meno di una politica in grado di emanciparci dalle energie fossili, non si può sperare che il nostro debito sia sempre coperto dagli altri.

Ogni euro di deficit va d’ora in poi sottoposto a un test rigoroso: sì a nuove spese solo se aumenta stabilmente la capacità del Paese di crescere. Non fra sei settimane grazie alla paghetta del Reddito di cittadinanza, ma fra sei o sedici anni, grazie al ritorno degli investimenti. È l’ora di veder lungo. Non solo in Borsa.

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