Nelle 72 pagine di linee guida del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” presentato dal governo per l’utilizzo del Recovery Fund non è possibile leggere neppure una volta la parola “fiere”.
Invece il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini – intervistato da Italia Oggi sulle sue priorità regionali di “ripresa e resilienza” post-Covid – è andato a colpo sicuro: “Ci sono settori che si sono ripresi bene, ma altri sono ancora a terra. Per esempio, fra i settori in grave sofferenza ci sono le fiere“. Che fare? “Bisogna pensare in grande. Per superare questa situazione in Emilia-Romagna sto accorpandole in un’unica holding. E perché, domani, non coinvolgere anche Milano e andare così a competere con i tedeschi e non solo?”.
Contate, sono meno di trecento battute: un tweet. Ma – attorno alla parola “fiere” – Bonaccini ha tracciato l’identikit di un programma-guida di livello nazionale. Uno di quelli che avrebbero dovuto finire in evidenza nei quattro megabyte del “libro dei sogni” di Conte: che vola di dream in dream fra “contesti” e “missioni”, ma di progetti non ne identifica neppure uno. A meno di non considerare tale la parola “Taranto” – ma fra parentesi – in un pallino nella slide a pagina 56, “Cluster del Pnrr”.
E’ possibile che il sistema fieristico nazionale risuoni nella voce “filiere per lo sviluppo eccetera” che punteggia il dossierone di Palazzo Chigi. Bonaccini, dal canto suo, parla di una strategia già in progress nella fitta rete delle fiere del Nord.
Nei primi giorni di giugno – appena dopo la fine del lockdown e prima degli Stati generali dell’economia indetti da Conte – Bonaccini e il governatore del Veneto, Luca Zaia, hanno chiesto assieme un contatto con il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Hanno sollecitato interventi straordinari di sostegno a favore di un settore il cui fatturato diretto è previsto in calo del 90% a fine anno, su un giro d’affari stimato in 7 miliardi al lordo di un sostanzioso indotto.
Ma le Regioni Veneto ed Emilia-Romagna – vero hub delle grandi fiere italiane – non hanno solo domandato il supporto dell’esecutivo. Hanno subito messo sul tappeto un’operazione strategica pilota: la fusione fra la Fiera di Bologna e Ieg, nata dall’aggregazione fra le fiere di Vicenza e Rimini e quotata in Borsa come la Fiera di Milano. E se hanno ventilato al Mef il possibile intervento della Cdp è stato in qualità di investitore, non di “sussidiatore”.
Gli altri nomi candidati a entrare nel progetto sono tutti sulla mappa: almeno su quella del “Nordest 2.0” che include ormai a pieno titolo l’Emilia-Romagna, avvicinata al Veneto anche da una comune visione sull’autonomia rafforzata. Dunque: Parma e Verona, Padova e Longarone, Modena e Piacenza, Pordenone e Udine, Cesena e Reggio Emilia, Piacenza e Bolzano. E oltre il confine occidentale, in Lombardia c’è anzitutto Milano, ma non solo.
Vino e marmo, meccatronica e mobili, “cicli e motocicli” e macchine per il gelato, oro e gioielli, moda e occhiali, cosmetici e antiquariato, nautica e turismo: quante sono le vetrine fieristiche d’eccellenza che l’Azienda Italia deve tenere competitive nel post-Covid? Anzi: su quali brand è bene puntare, magari pensionandone altri? Ci sono doppioni anacronistici? Ci sono start-up-events promettenti, nicchie di mercato fieristico su cui andare all’attacco? Come mettere a fattor comune le relazioni privilegiate maturate dalle singole fiere sui mercati internazionali, sia nell’attrazione che nell’export di fieristica?
Nel tweet di Bonaccini, il masterplan per il rilancio e la resilienza della “Grande Fiera del Made in Italy” è delineato con chiarezza: aggregazioni e competitività esterna; Cdp ma anche investitori privati e Borsa; Regioni autonome e grandi distretti d’impresa. Nel dream book di Conte non c’è nulla. In mezzo ci sono una fetta dei 200 miliardi del Recovery Fund.