Non è facile scegliere – in questi giorni – fra i 29 anni trascorsi perché Calogero Mannino venisse definitivamente assolto in Cassazione dalle ultime imputazioni di mafia e gli oltre 4 anni necessari alla Procura di Milano per imputare la francese Vivendi di manipolazione informativa all’inizio del suo lungo assedio a Mediaset (e il patron Vincent Bolloré si è visto indagare anche per una distinta ipotesi di reato per fatti distinti risalenti a dieci anni fa). Due vicende giudiziarie molto diverse ma accomunate da una stessa “orologeria lenta”, mai però distratta.
In Sicilia – all’estremo sud del Paese – è sempre lotta all’ultimo sangue fra “mafia” e “antimafia”, spesso punteggiata da opposti “professionismi”, secondo un celebre detto di Leonardo Sciascia. È sempre guerra fra magistrati autovotati a “correggere gli errori della democrazia” – secondo l’altrettanto famoso lemma di un pm siciliano – e politici come archetipi di “colpevoli non ancora scoperti”, secondo il pensiero di un noto ex magistrato milanese. Poche settimane dopo la definitiva uscita di scena di quest’ultimo giudice dal Consiglio superiore della magistratura, la Cassazione ha definitivamente scoperto che l’ex ministro Mannino non era affatto coinvolto nella presunta “trattativa Stato-mafia”, come sostenuto otto anni fa dal pm palermitano di cui sopra. Anzi: lo stesso teorema della trattativa (che si sarebbe svolta nei primi anni 90) è risultato indebolito dall’assoluzione di Mannino.
A Milano – all’estremo opposto della penisola, ben dentro l’Europa – la Procura si è inventata una trentina d’anni fa come iconico centro di potere contro ogni intreccio criminale fra politica e affari: giusto ai tempi delle prime indagini siciliane contro Mannino. Per la verità anche gli anni gloriosi di Mani Pulite alimentarono qualche sospetto di utilizzo, da parte dei Pm, di una pluralità di pesi e misure: si trattasse a esempio di colpire i vertici di Dc o Psi piuttosto che quelli del Pci; o di perseguire i gruppi Ligresti e Ferruzzi piuttosto che Mediobanca o Fiat. Si trattasse – anni dopo – di fermare un governatore “sovranista” come Antonio Fazio (e il banchiere outsider Gianpiero Fiorani) oppure di sequestrare la maggioranza azionaria di Antonveneta, poi ricollocata ad Abn Amro, secondo gli auspici dei mercati finanziari. Che poi quel pacchetto sia rientrato prestissimo in Italia, provocando in Mps il peggior dissesto bancario nazionale di sempre è naturalmente un’altra storia.
Dal 1992, in ogni caso, il mito mediatico della Procura meneghina – anzitutto quello della tempestività apparentemente infallibile di Antonio Di Pietro – si è via via appannato. Basta pensare alla clamorosa rottura fra il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo su tempi e modi delle investigazioni sugli appalti Expo 2015 (meritandosi peraltro, la Procura “responsabile”, i significativi ringraziamenti pubblici del premier Matteo Renzi). Ma capitolo a sé hanno formato anche le inchieste “bancopoli” a partire dal crac Parmalat: rivolte in prevalenza contro gruppi esteri e con esiti processuali parziali e controversi. E una condanna rumorosa contro un banchiere ambrosiano di primo livello come Alessandro Profumo è giunta (in primo grado) solo nel 2020, a cinque anni dai fatti e contro il punto di vista dei Pm.
Se c’è stato tuttavia un vero filo unificante di tutte le stagioni recenti della Procura di Milano è stata l’ininterrotta attenzione inquirente verso Silvio Berlusconi: certamente titolare di un conflitto d’interessi strutturale e del massimo livello (premier e tycoon di un duopolio televisivo con il servizio pubblico). Un semplice elenco stenografico di tutti i procedimenti giudiziari originati dalla Procura di Milano contro il Cavaliere occuperebbe due volte il testo di questo articolo. Dalla frode fiscale sui diritti televisivi al caso Ruby, dal caso Mondadori all’acquisto della villa di Macherio, dal caso Lentini all’accusa di manipolazione del mercato pubblicitario con la Rai: a Berlusconi i Pm milanesi non ha mai fatto mancare nulla. Hanno gettato le basi per per l’ineleggibilità parlamentare del Cavaliere e quelle che lo hanno obbligato a un maxi-risarcimento all’arcirivale Carlo De Benedetti e infine a trascorrere un periodo di affidamento ai servizi sociali. Berlusconi “non indagato né pertinente” è stato fatto spuntare perfino nelle “madri di tutte le intercettazioni”: quelle del 2005 sulle Opa bancarie.
Non sorprende – su questo sfondo – che la Procura di Milano abbia tenuto nel cassetto per quattro anni le indagini su quanto è accaduto fra 2015 e 2016 durante le trattative fra Vivendi e Mediaset (già partecipata dai francesi) per Premium: un fascicolo peraltro sottile come l’ipotesi di reato di “manipolazione informativa”. Quattro anni fa Berlusconi non era già più il “Cavaliere Nero” di un tempo (era stato fra l’altro fondamentale nel sostenere attraverso Denis Verdini tre governi di centrosinistra, elezione inclusa di Sergio Mattarella al Quirinale). Ma certo lui e Mediaset erano ancora lontani dallo status di “patrimonio del Paese” meritevole di ogni tutela. Lo sono divenuti solo nell’ultimo anno: quando l’obiettivo di pura sopravvivenza del Conte-2 è coinciso prima con lo sforzo prioritario di distruzione politica di Matteo Salvini, poi con la mera tenuta di una maggioranza giallorossa sempre più lacerata.
Ed è stato nelle ultime settimane che – in un raro decreto legge, non troppo diverso da un Dpcm – è stato inserito un codicillo ad aziendam per proteggere Mediaset (da anni sotto scalata ostile da Vivendi) come gruppo di interesse nazionale. E questo nonostante il provvedimento fosse in contrasto frontale con una pronuncia della Corte europea di giustizia. Ma è comunque ora che l’orologio della Procura, fermo da anni, ha ripreso a correre e a squillare: contro Vivendi, a favore di Mediaset. In totale sintonia con le (discusse) decisioni di un Governo di centrosinistra.
In teoria può perfino sembrare una buona notizia che la magistratura italiana sappia “cambiare idea” (lo è sicuramente per Berlusconi e forse per la maggioranza di governo, che dei voti di riserva di Forza Italia avrà prevedibilmente sempre bisogno). Certamente meno rassicurante è osservare l’inedita “unità d’intenti” fra il governo giallorosso, il Palazzaccio meneghino e il solito Berlusconi “uno e bino”.