Quando Repubblica titola a tutta prima pagina “Moscopoli, Salvini non poteva non sapere” è oltremodo trasparente nel messaggio-teorema: il vicepremier è “colpevole subito” di rapporti illegali con il mondo degli affari (nell’ipotesi di fattispecie quello petroliferi dell’Eni in Russia) come lo furono tanti politici all’epoca di Mani Pulite, alla fine molto “Eni-centrica”. E il “metodo Di Pietro” – divenuto verbo della Procura di Milano che ora indaga sul “caso Lega-Russia” – sembra mantenere quasi trent’anni dopo una validità immutata, “biblica”. 



Ribadito che alla base di una vera democrazia c’è una stampa libera nelle sue opinioni, Repubblica per prima non può non sapere che pochi giorni fa il sindaco di Milano Beppe Sala è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Milano per falso. Nonostante la sua difesa, i giudici hanno accolto la tesi della Procura generale, secondo cui  l’allora amministratore delegato dell’Expo 2015 non solo “non poteva non sapere”, ma anzi “sapeva tutto” dell’illecita retrodatazione in un atto di un appalto strategico per l’evento.  Il sindaco di centrosinistra – tuttora potenziale leader nazionale –  ha in ogni caso reagito alla sentenza (non un semplice avviso di garanzia, tanto meno a un’inchiesta giornalistica su una “trattativa non conclusa”) con un “vado avanti”: addirittura sprezzante nel confronto democratico con le opposizioni in consiglio comunale a Milano. Tutto con la netta e sostanziale solidarietà di Repubblica e di altri grandi media nazionali.



La condanna a Sala ha chiuso – almeno per ora – una vicenda politico-giudiziaria tutt’altro che datata nell’Italia 2019. Cinque anni prima che la magistratura italiana e la sua credibilità venissero travolte dal “caso Palamara”, fu la Procura di Milano a essere lacerata dal “caso Bruti Liberati-Robledo”. L’allora procuratore capo, storico notabile di Magistratura democratica, venne accusato dal suo “aggiunto” Alfredo Robledo (delegato ai reati contro la Pa) di aver insabbiato le inchieste in tempo reale sulla preparazione dell’Expo. L’esito è noto: il Csm cacciò Robledo (presidente era Giorgio Napolitano, vicepresidente “laico” era il parlamentare Pd Giovanni Legnini, vicinissimo al premier Matteo Renzi; all’Anm Luca Palamara era potente past president). L’inaugurazione dell’Expo di Sala (che ebbe poi Vladimir Putin fra i suoi ospiti di maggior riguardo) registrò pubblici omaggi istituzionali di “sensibilità” e “responsabilità” ai magistrati milanesi.



È stata poi la Procura generale a “correggere” – benché  con anni di ritardo – le scelte tormentate della Procura, ottenendo peraltro ragione dai giudici di primo grado sul comportamento di Sala. Quella stessa Procura è ora scattata a indagare a tamburo battente sul “caso Savoini”: se servisse anche per rogatoria in Russia. E non ha fatto altro che riaccendere interrogativi. È difficile pensare che la cronaca politico-giudiziaria del 2019 non abbia nulla a che vedere con quella del 2015 o del 2013 o del 1992-e-seguenti. Ed è altrettanto inevitabile pensare – “pensar male” – di  una sinistra che attraverso i suoi media di riferimento mostra di “saper sempre di non sapere”.

“Non sa, non ricorda” – questa sinistra mediatico-giudiziaria – di aver colpito l’allora premier Silvio Berlusconi con un avviso di garanzia a mezzo stampa la mattina di un G7. Sembra essersi dimenticata della “madre di tutte le Opa” su Telecom, patrocinata personalmente dall’allora premier Massimo D’Alema: e fu in quel passaggio che Olivetti cedette Omnitel alla tedesca Mannesman appena cinque anni essersi vista assegnare in extremis dal governo Ciampi la seconda licenza della telefonia mobile. Un affare molto più grande – Telecom – della fusione Enimont che preparò il tragico culmine della stagione di Mani Pulite: non da ultimo il clamoroso ritravestimento di Antonio di Pietro da Pm-star a “ministro degli appalti” del governo Prodi-1.

La più importante vittima di Mani Pulite fu Bettino Craxi, mentre l’unica ansia per gli allora Ds – eredi del Pci – fu quella portata dall’oscuro,  misterioso ed ermetico “compagno Greganti”. L’allora leader del Psi fu preso a monetine anche in Parlamento quando propose un’operazione-verità:  in cui tutti – i politici e non solo –  avrebbero potuto e dovuto raccontare “tutto quello che sapevano e non potevano non sapere” sui rapporti fra affari e politica e sul finanziamento alla politica italiana dal 1945 agli anni ’90. Dall’Italia o dall’estero, da Oltre Atlantico a Oltre Cortina. Ma allora la sinistra – Repubblica in testa – fu compatta nell’appoggiare la “soluzione giudiziaria”: contro Craxi via imputazione di tangenti vere o presunte; contro Giulio Andreotti via ipotesi di collusione mafiosa alla fine tutta presunta. A seguire: via “fine lotta mai” contro Berlusconi (o anche contro Roberto Formigoni).

Mentre il Pd strilla la necessità di una commissione d’inchiesta, Craxi è sepolto già da 19 anni sulla costa tunisina. Non è difficile pensare che – 27 anni dopo il suo discorso parlamentare del 3 luglio 1992 – l’ex premier si direbbe totalmente d’accordo. Parliamone, per esteso e in profondità, del finanziamento della politica dei rapporti fra grandi affari e finanza “globalizzante e globalizzata” e governi italiani. Parliamo delle privatizzazioni italiane gestite dai governi Ciampi e Prodi e dell’Opa 2005 su Bnl (“Abbiamo una banca”, disse l’allora leader Ds, Piero Fassino, anche se la banca finì poi alla francese Bnp, contratto firmato nello studio di Guido Rossi sotto l’occhio compiaciuto della Procura di Milano). Parliamone: una volta per tutte, nelle sedi proprie della democrazia costituzionale. E con una “libera stampa” realmente all’altezza.