Le relazioni semestrali dei grandi gruppi editoriali non hanno portato di per sé novità inattese. I conti puntuali possono essere risultati più o meno resilienti nella prima metà del 2021 – ancora fortemente connotata dal Covid – ma nessuno dei big (Gedi, Rcs, Caltagirone, Gruppo 24 Ore, Monrif), etc si è ritrovato nella condizione di esibire una situazione di stabilità gestionale, caratterizzata da prospettive certe. Neppure Rcs, che pure ieri ha annunciato un miglioramento sia nei ricavi che nell’utile netto.



L’editoria giornalistica tradizionale continua – nel suo complesso – a tenere con fatica il proprio mercato e a soffrire molto negli equilibri economici. E il semi-commissariamento deciso dal governo per l’Inpgi – l’ente previdenziale dis ettore – conferma in misura poco equivocabile la gravità della crisi in termini di ricorso straordinario agli ammortizzatori sociali.



Proprio attorno al dissesto dell’Inpgi, Palazzo Chigi ha costruito un tavolo che – nel termine stretto del 20 ottobre – dovrà mettere in sicurezza la previdenza dei giornalisti, ma prevedibilmente all’interno di indirizzi di politica industriale. E’ questo, almeno l’auspicio del sindacato dei giornalisti Fnsi, che invoca il sostegno pubblico per una stampa libera, baluardo della democrazia (la necessità di una “garanzia pubblica” per l’Inpgi è stata evocata nei giorni scorsi anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella).

Non è improbabile che il governo – già in sede di manovra finanziaria 2022 e di avvio del Pnrr – metta a disposizione risorse per la resilienza e il rilancio deila media industry nazionale. La transizione digitale (affidata al ministro Vittorio Colao, in passato anche Ad di Rcs) sembra un terreno dedicato: a maggior ragione se venissero attivate nella Ue “web tax” nei confronti dei giganti digitali, sempre più dominanti sui mercati globali dell’informazione e della pubblicità.



Le cautele del governo e in generale della forze politiche restano tuttavia visibili e chiare nella loro motivazione. La crisi del giornalismo made in Italy – innestata in ritardi non solo tecnologici – è concretamente maturata in gruppi editoriali privati, quotati in Borsa e controllati da grandi nomi del capitalismo finanziario italiano (oggi le famiglie Agnelli, Caltagirone e Berlusconi, oltre a Confindustria e a Intesa Sanpaolo, che da cinque anni finanzia la progressiva acquisizione di controllo effettivo di Rcs da parte di Cairo Communication). E non c’è dubbio che tutti questi editori – prevalentemente finanzieri diversificati – siano accomunati dall’aver investito poco o nulla sui loro business: non nella modernizzazione dei prodotti e dei processi, non sull’ingresso di figure professionali giovani, “native digitali”.

Su questo terreno non è apparsa priva di significato una notizia di giornata in margine ai conti del Sole 24 Ore. Il gruppo – che ha tuttora nella Confindustria il suo azionista di maggioranza assoluta – ha annunciato di aver emesso un prestito obbligazionario non convertibile a sette anni per 45 milioni: raccolti presso investitori istituzionali e impiegato per ripagare un pari importo di debito bancario a breve termine. Si è trattato quindi di un consolidamento del passivo finanziario, accumulato principalmente dalle perdite degli ultimi dieci anni.

In sé l’operazione è tecnicamente ineccepibile: servirà a dare al gruppo un po’ di respiro di bilancio che l’esposizione presso le banche italiane consentiva con sempre maggiori difficoltà. Restano tuttavia almeno due profili problematici. Il primo: nel gruppo Sole non entra “nuova finanza”, ma resta invece tutta la “vecchia”. a sua volta determinata solo in piccola parte da nuovi investimenti. In secondo luogo, ancora una volta, Il Sole e il suo azionista di maggioranza hanno escluso un ricorso strategico ai mercati finanziari: in concreto il lancio di un aumento di capitale e la ricerca di possibili nuovi investitori (finanziari o editoriali).

Ma è una situazione comune a tutti i grandi gruppi: compresi Mondadori e Mediaset che hanno a capo Fininvest. Compresa la Rai, controllata al 99% dal Tesoro. Gli assetti proprietari – rigorosamente nazionali – sono chiusi: anche all’afflusso di nuovi capitali privati, quasi sempre veicoli di innovazione strategica. Resta invece l’appello monodirezionale verso gli aiuti pubblici: che tuttavia è prevedibile non verranno dati a fondo perduto da un governo che sta lavorando alla riforma degli ammortizzatori sociali ma anche a un impulso forte alle liberalizzazioni e alla concorrenza. Cioé all’imprenditorialità.