Bruno Vespa ha ritenuto di dedicare “Cinque minuti” – la striscia quotidiana dopo il Tg1 serale – al suo caso: lo stop imposto dall’Agcom al duello elettorale fra la Premier Giorgio a Meloni e la leader Pd Elly Schlein, sul quale il conduttore Rai era riuscito a ottenere il consenso di entrambe. Al di là di qualche eccesso personalistico, Vespa non ha avuto tutti i torti a richiamare l’attenzione su quello che nei fatti è stato un passaggio politico niente affatto banale.



Perfino alcuni argomenti addotti – pur con qualche piegatura strumentale – hanno avuto una loro pertinenza: come il ricordo di una trasmissione condotta nel 2021 da Michele Santoro sulla Rai, giudicata ex post manifestamente squilibrata nelle voci contro Silvio Berlusconi. Ma appunto: Santoro e Berlusconi (il Premier-proprietario di Mediaset che mise al bando il primo dalla Rai nell’ormai lontano 2001, dopo una vittoria elettorale) appartengono a una stagione politico-mediatica talmente invecchiata che perfino authority solitamente comprensive non hanno potuto non fischiare il fallo. Ed è comprensibile che se ne lamenti e preoccupi il gestore della “terza camera”, com’è stata da tempo ribattezzata “Porta a porta”: che è incardinata nel paesaggio della Seconda Repubblica come pochi altri soggetti politico-mediatici.



Nel trentennio appena caduto dalla prima vittoria elettorale del centrodestra nell’Italia del maggioritario, il paesaggio politico-televisivo è rimasto graniticamente immutato. Da un lato le tre reti del servizio pubblico (quasi oggettivamente sotto il controllo del centrosinistra, come largo erede della Prima Repubblica, anzitutto della sinistra Dc e del Pci); dall’altro le tre reti Mediaset il cui proprietario si ritrovò subito a ereditare e ricompattare anche un articolato patrimonio politico-elettorale, non solo socialista.

“Porta a Porta” è stata una delle principali stanze di compensazione televisive di un’Italia bipolare in cui erano chiari i pesi e i capi politici, cui erano perfettamente congruenti le due metà di un sistema televisivo rigidamente regolato. Quell’Italia ha cominciato a scricchiolare già con il voto 2013: il secondo di una serie che il neonato Pd ha puntualmente “non vinto” e spesso “perso”, pur governando quasi sempre, con un ininterrotto monopolio sul Quirinale. Nel 2018 – dopo cinque anni al Governo – il Pd è finito poi molto dietro M5S e in quelle elezioni anche Forza Italia, per la prima volta, non è più emersa come il primo partito del centrodestra. Ed è stato così che per un anno l’Italia è stata governata da una maggioranza che escludeva sia l'”editore storico” della Rai, sia il proprietario di Mediaset (e a posteriori è lecito chiedersi se anche questa situazione non abbia contribuito al “ribaltone” del 2019).



Dopo il voto 2022, il quadro politico è evoluto ancora. Una netta affermazione del centrodestra – escluso dalla guida del Paese dal 2011 – ha portato però a palazzo Chigi la leader di Fdi, con Forza Italia fortemente distanziata al terzo posto nella maggioranza. E nell’arco di pochi mesi la scomparsa di Berlusconi ha portato incertezza su entrambi i suoi fronti ereditari. La successione patrimoniale-aziendale in Mediaset è andata in porto senza contraccolpi, ma in un contesto di incognite accresciute sul versante politico-regolamentare, interno ed europeo. Il futuro di Forza Italia, nel frattempo, affronterà un test importante fra tre settimane al voto europeo: benché i seggi al Parlamento italiano, salvo colpi di scena, sembrino destinati a garantire su tutti i versanti una presenza politica “post-berlusconiana”.

La situazione è però intanto cambiata anche nel centrosinistra. Qui è vero che il Pd è tornato a essere il partito numericamente più forte dell’opposizione rispetto a M5S: ma non in misura così netta e accusando soprattutto un’indubitabile crisi di leadership con l’avvento di Schlein. I “dem” si sentono ancora “padroni” della Rai quando da un lato il “proprietario pro-tempore” è un Governo di centrodestra, per di più sganciato dal modello “Raiset”; e dall’altro nel centrosinistra refrattario a ogni “campo largo” M5S contesta e contende ogni giorno il primato al Pd.

Dopo il fallito sciopero Rai, il “caso Vespa” è un altra spia visibile di come l’evoluzione politica prema in misura sempre più pesante sull’ingessatura della legge “da Mammì-a-Gasparri-passando-per-Gentiloni”. Il conduttore (“proprietario”) di “Porta a Porta” si è mosso come se a duellare in vista del voto ci fossero ancora Berlusconi e Romano Prodi. Invece oggi la Premier – di centrodestra – è per diverse ragioni “equilontana” sia dalla Rai (cui non a caso ha abbassato il canone), sia da Mediaset (e non solo per il “caso Giambruno”, effetto e non causa del riequilibrio dei rapporti fra Meloni e famiglia Berlusconi). Alla guida dei “dem” c’è intanto una leader che non viene riconosciuta davvero tale neppure da tutti i suoi parlamentari, iscritti, supporter. E il fatto che sia bastata l’Agcom per “squalificare” Vespa – senza reazioni degne di nota da parte delle due candidate-duellanti – la dice lunga.

Ha ragione Vespa: non solo lui, ma l’intera “Raiset” has a problem. E non è la libertà di stampa guardiana della democrazia eccetera. Il problema è una legislazione televisiva ormai del tutto obsoleta e logora. E non è escluso che sia Meloni che Schlein, in cuor loro, la cambierebbero volentieri subito.

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