Com’era prevedibile – e non augurabile – il pacchetto degli aiuti all’editoria nella manovra 2020 si è accartocciato in un grosso pasticcio: nel quale la crisi della media industry nazionale sembra essersi intrecciata con le convulsioni della fase politica.
Il governo Conte 2 ha anzitutto congelato i tagli varati dal Conte 1. A fianco del ripristino degli aiuti pubblici diretti a testate come Avvenire e Manifesto, Radio Radicale è stata rifinanziata per 24 milioni nei prossimi tre anni. È stata questa la priorità imposta del neo-sottosegretario all’Editoria, il dem Andrea Martella. Una seconda corsia preferenziale è stata accordata alla richiesta del ministro per i Beni Culturali, il dem Dario Franceschini, di stanziare 20 milioni (parte dell’incasso della web tax) per favorire abbonamenti di quotidiani e periodici, cartacei e digitali, da parte di tutte le scuole di ogni ordine e grado, in progetti di “lettura critica”.
Sul piano della crisi occupazionale del settore, il Governo ha messo sul tavolo 7 milioni per rifinanziare nuovi prepensionamenti di giornalisti e poligrafici in piani di ristrutturazione presentati nell’anno entrante da gruppi editoriali in difficoltà (altri 3 milioni all’anno sono stati indicativamente previsti per il periodo 2021-2027). È stato tuttavia inasprito il vincolo di turnover: per ogni 2 giornalisti prepensionati con scivolo pubblico (non più ogni 3 come precedentemente previsto dal governo Renzi), gli editori beneficiari saranno impegnati ad assumere una nuova figura professionale. Con una novità rilevante: i nuovi assunti non dovranno essere necessariamente giornalisti iscritti all’Ordine professionale, ma sarà sufficiente che sia dimostrabile “il possesso di competenze professionali coerenti con la realizzazione dei programmi di rilancio”. La misura sembra quindi spalancare direttamente le porte delle redazioni a una vasta comunità di nuovi digital workers: com’era nei palesi desiderata di M5s (che – non va dimenticato – e un partito in cui è strategico il ruolo di un’azienda digitale come la Casaleggio Associati).
È stata questa scelta a scatenare violente reazioni polemiche da parte dell’Ordine dei giornalisti e della Fnsi (non invece dalla Fieg). I rappresentanti professionali e sindacali dei giornalisti hanno accusato Conte 2 e Martella di agire in direzione opposta all’intento dichiarato dal nuovo governo di centro-sinistra di voler tutelare il giornalismo come baluardo democratico della libertà di stampa, nella lotta alle fake news e ai “linguaggi dell’odio”. In particolare: dopo aver platealmente dichiarato “estinti” gli Stati Generali aperti in primavera dal Conte 1 e dal sottosegretario Vito Crimi (M5s), Martella si sarebbe ritrovato a dover pagare al predecessore – e a quella che resta la prima forza della maggioranza di governo – un pedaggio puramente politico sulla pelle dei giornalisti. Un compromesso dettato dalla volontà pentastellata di mantenere sotto pressione i grandi editori (Cairo & Intesa Sanpaolo, Agnelli, Confindustria, Caltagirone, ecc.).
Il caso più esplosivo si è tuttavia materializzato nella notte finale della manovra, con la cancellazione della cosiddetta norma-scudo per l’Inpgi: l’istituto previdenziale dei giornalisti. Nel progetto di legge di stabilità già discusso in commissione, era previsto lo slittamento di ulteriori sei mesi (da fine 2019 a metà 2020) del termine per la presentazione di un bilancio tecnico-attuariale che attestasse gli effetti delle misure di risanamento varate tre anni fa. Ora, invece, dall’1 gennaio sull’Inpgi – cassa privatizzata sotto la vigilanza ministeriale – torna a incombere il rischio di commissariamento.
Lo ha confermato il presidente, Marina Macelloni, parlando di “situazione critica” e lamentando nuovamente che non sia potuto fare passi avanti sull’ipotesi di allargamento della platea di contribuenti ai lavoratori della comunicazione, finora iscritti all’Inps. L’ipotesi era peraltro stata formalizzata in una proposta dell’allora sottosegretario al Welfare del Conte 1, Claudio Durigon (Lega). C’è più di un sospetto, quindi, che anche la crisi dell’Inpgi (peraltro chiamata in causa dalla nuova ondata in prepensionamenti in arrivo) sia finita in un tritacarne puramente politico, che nulla avrebbe a che fare con le esigenze dell’emergenza di politica industriale e del lavoro in cui versa il settore. Un comparto in cui, peraltro, è visibile una ri-accelerazione del riassetto.
Solo pochi giorni prima che prendesse forma il nuovo “pasticcio” degli aiuti all’editoria, Exor (famiglia Agnelli) ha annunciato l’acquisizione da Cir (famiglia De Benedetti) del controllo di Gedi, l’editoriale di Repubblica, Stampa e di una nutrita filiera di testate locali radiofoniche. Rcs ha nel frattempo deciso di razionalizzare la gestione della pubblicità del Corriere della Sera e delle altre testate del gruppo, affidandole direttamente alla capogruppo Cairo Communication. Non è passato inosservato neppure il rally di Borsa del Gruppo 24 Ore: addirittura +18,8% nella sola seduta di venerdì scorso, ma +30% a partire dall’inizio del mese.
I rumor di Piazza Affari sono cauti sull’ipotesi di scalate esterne in corso, privilegiando invece la pista del delisting da parte della stessa Confindustria, tuttora azionista di largo controllo. La prospettiva era già stata apertamente ventilata – in occasione del più recente aumento di capitale del Sole – da un leader confindustriale come la past president Emma Marcegaglia, oggi presidente dell’Eni. Da un lato il gruppo Sole – in prossimità del rinnovo dei vertici della stessa Confindustria – potrebbe voler uscire dalla luce diretta della vigilanza sulle società quotate dopo la lunga fase problematica seguita alle inchieste giudiziarie per vari reati societari. Dall’altro è evidente che un gruppo dalle quotazioni depresse al listino – dopo una lunga serie di bilanci in rosso, anche se ora in graduale ripresa – resta meno facilmente maneggiabile in eventuali operazioni straordinarie di riassetto, come la vendita, l’aggregazione o l’ingresso nella proprietà di nuovi partner finanziari o editoriali.