Sul tavolo del premier Mario Draghi ci sono due dossier giustamente in seconda posizione rispetto all’emergenza Covid, al Pnrr, alla riforma della giustizia e riguardano il rinnovo dei vertici Rai e la crisi dell’Inpgi, l’ente previdenziale dei giornalisti italiani. Su entrambi Palazzo Chigi segnala distacco ma non disinteresse: attento soprattutto a porre questioni di metodo. Utili – e forse necessarie – a generare buone soluzioni di merito.
Una prima preoccupazione evidente è quella di non correre ad affrontare problemi che sono in realtà effetti ultimi e specifici di crisi più ampie e strutturali. Sarebbe nuovamente inutile e soprattutto ipocrita da parte del governo collaborare attivamente alla lottizzazione periodica del Cda Rai, posponendo ancora riflessioni e provvedimenti ormai urgente sull’industria dei media in Italia.
La stessa Ue – impegnata nella difficilissima partita del digitale globale – ha formalmente dichiarato antidiluviano il duopolio televisivo italiano, cementato in legge trent’anni fa, quando il web era sconosciuto. E lo stesso dissesto dell’Inpgi è figlio di un giornalismo tradizionale messo in crisi profonda – da almeno due decenni e in tutto il mondo – dalla rivoluzione digitale. Tamponare a pie’ di lista il buco di bilancio dell’ente previdenziale non avrebbe un effetto minimo neppure sull’Inpgi se il mercato del lavoro giornalistico resta a sua volta ingessato; se la media industry nazionale resta un ridotto assediato, un oligopolio chiuso fra lo Stato, la famiglia Berlusconi, Urbano Cairo (ancora puntellato da Intesa Sanpaolo) la famiglia Agnelli, la famiglia Caltagirone, Confindustria e poco altro; se i giornalisti restano ancora asserragliati in un doppio sindacato unico e corporativo (Fnsi-Usigrai) abbarbicato attorno al più anacronistico degli ordini professionali; se da decenni, di fatto, Fnsi e Fieg procedono per rinnovi parziali o superficiali di un contratto nazionale ormai del tutto avulso dal mercato e dai nuovi profili e contenuti della professione.
È questa situazione ad aver aperto due fascicoli puntuali sulla scrivania già zeppa del premier. Che ha risposto con uno stesso metodo.
Sulla nomine Rai ha fatto sapere che lunedì 12 il governo designerà i membri del Cda di competenza Mef (il “padrone” della Rai): in particolare l’amministratore delegato. Questo a prescindere dai partiti, che hanno deciso di rinviare ancora le nomine di competenza parlamentare (fra cui quella del presidente) almeno a dopo il chiarimento attorno al ddl Zan.
Sul commissariamento dell’Inpgi – slittato nuovamente di sei mesi alla scadenza del 30 giugno – il governo ha risposto a un’interrogazione parlamentare in termini inequivocabili. Il caso Inpgi è da mesi sotto l’attenzione di Palazzo Chigi (delega all’editoria), Mef e Welfare ed è pronto a far scattare tutte le reti pubbliche di protezione usualmente predisposte per salvare una cassa privatizzata (nei giorni scorsi il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha prospettato chiaramente l’assorbimento dell’Inpgi).
Se tuttavia Fieg e Fnsi/Usigrai ritengono di poter mettere in sicurezza coi propri mezzi nel lungo periodo l’Inpgi – cioè l’editoria giornalistica – il governo lascerà fare: in particolare se le forze politiche approveranno un emendamento al decreto sostegni presentato da Filippo Sensi, ex portavoce di Matteo Renzi a Palazzo Chigi e oggi deputato Pd. È lui ad aver chiesto altri sei mesi di sopravvivenza artificiale dell’Inpgi: che da un lato finanzia direttamente il sindacato stesso, dall’altro è andato in quasi-default per aver sborsato centinaia di milioni in cassa integrazione e prepensionamenti.
Il metodo Draghi è chiaro sul versante istituzionale e su quello della gestione della politica economica. Sulla Rai e sulla gestione delle casse previdenziali, vi sono competenze del governo che il premier e i suoi ministri non intendono derogare su pressione delle forze politiche (ed è un esito singolare della stagione dei “pieni poteri” di Giuseppe Conte e della presunta marginalizzazione del Parlamento). Se le forze politiche sono lente sulla Rai, il “metodo Draghi” le anticipa e mette in chiaro le sue competenze sulla gestione dell’azienda-Rai. Se i grandi editori (che coincidono con il grande capitalismo nazionale) e i loro giornalisti dipendenti riescono a risanare “privatamente” la crisi delle loro aziende (quotate in Borsa) e di una cassa privatizzata da oltre 25 anni, il governo è ben lieto di attenderli: senza tuttavia ignorare la propria responsabilità generale di vigilare su tutti gli istituti di previdenza, intervenendo sempre quando sono i crisi il presente e il futuro delle pensioni di decine di migliaia di italiani.
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