L’Ordine dei giornalisti ha deciso una netta liberalizzazione dell’accesso alla professione. Secondo una recente delibera del consiglio nazionale, per essere “praticanti” (e quindi chiedere poi l’ammissione all’esame di Stato) non sarà più necessario il lavoro all’interno di una testata registrata con un direttore responsabile, ma un’auto-dichiarazione di svolgimento di attività giornalistica compensata, certificazione che gli Ordini regionali saranno chiamati a riconoscere.



Il ministero dell’Interno – vigilante su tutti gli ordini professionali – ha già per due volte bocciato la delibera perché essa andrebbe a modificare una norma di legge l’articolo 34 della legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti (di cui nel 2023 ricorrono i 60 anni). E solo il Parlamento può riformare una previsione legislativa.



Il caso appare per molti versi esemplare di una certa transizione italiana, non solo nel centrale snodo dell’informazione. Spicca anzitutto un paradosso: è il Governo che si ritrova a fare da guardiano e difensore dell’istituto ordinistico, mentre finora il mantra “giù le mani dall’Ordine” era stato invariabilmente arma in pugno della categoria giornalistica. L’arma è stata puntualmente rivolta contro la “politica”: quella che ha in effetti tentato periodicamente di riformare o abolire quello che è sempre apparso il più anomalo degli ordini professionali. Un cattivo retaggio illiberale, non compatibile con una moderna economia di mercato e forse – più in generale – con la stessa democrazia costituzionale (“La stampa è libera”, all’articolo 21).



A “mettere le mani” sull’Ordine dei giornalisti ci si sono provati pressoché tutti: spesso leader politici iscritti agli albi. È ancora fresca l’eco del tentativo di M5S – non contraria le Lega – durante il Conte-1. Ma mezzo secolo fa iniziarono i repubblicani di Ugo La Malfa a mettere in discussione una legge-simbolo del primo centrosinistra. Seguirono a ruota i radicali di Marco Pannella: se ne fece un referendum (sostenuto dall’allora Polo delle libertà) cui disse di aver votato sì anche il leader Ds Massimo D’Alema. Il quesito fu approvato dal 65% dei votanti, ma mancò il quorum.

Al superamento dell’Ordine lavorò anche, dall’Ulivo prodiano, l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella: con una proposta di “Consiglio nazionale dell’informazione” (una sorta di “Cnel del giornalismo”). Ma anche il suo predecessore liberale Luigi Einaudi (per decenni editorialista del Corriere della Sera) era notoriamente contrario a dare al giornalismo una disciplina ordinistica. Sia come economista, sia come uomo politico.

Einaudi ricordava bene quando e come era nato il primo Albo dei giornalisti: nel 1925: come accordo fra editori e giornalisti, presto destinati a diventare “corporazione”, in un regime che aveva al vertice un direttore di giornale, Benito Mussolini. È indiscutibilmente “fascista” la matrice dell’ordine dei giornalisti: inserito nel 1942 nel codice civile Rocco a fianco delle professioni classiche esclusivamente in omaggio al Duce. L’Ordine dei giornalisti nasce peraltro giustapposto a un sindacato unico già strutturato nella “corporazione” dell’editoria giornalistica nazionale. E tale singolarità – un Ordine formato quasi esclusivamente di dipendenti nel suo albo principale, in dualismo simbiotico con un sindacato unico – è sopravvissuto fino a oggi, lungo 75 anni di democrazia.

Ora si aggiunge la nuova singolarità di un Ordine che vuole auto-riformarsi: considerandosi – di fatto non a torto – l’involucro o l’appendice di un sindacato (peraltro “unico”, al di là della democrazia interna fittamente articolata in correnti che caratterizza oggi la Fnsi). Per coincidenza a richiamare l’Ordine sui limiti alla propria “libertà” è il primo Governo repubblicano guidato (democraticamente) da una forza politica “post-fascista”. Ma la difesa burocratica della regulation in vigore da parte del ministero appare assai meno problematica delle mosse di un Ordine-sindacato unico che – dopo essersi trincerato per decenni nell’eredità inerziale del Ventennio – tenta oggi una fuga in avanti “border line” sulla legge. E senza segnalare di voler mettere in discussione il proprio percorso nella democrazia e nell’economia di mercato dell’Italia fra ventesimo e ventunesimo secolo.

Rivedere le regole di accesso ordinistico alla professione appare nel merito una risposta insufficiente e soprattutto ambigua: figlia inevitabile dell’equivoco strutturale dell’Ordine-sindacato unico. Un ordine professionale ha come fine istituzionale la salvaguardia dell'”arte”: la restrizione normativa all’accesso e all’esercizio della professione sul mercato è giustificata dall’interesse collettivo a vedersi offrire servizi di qualità “certificata”, con delega all’ordine di verificare i requisiti dei candidati e degli iscritti. Finora, non a caso, il “praticante” era obbligatoriamente affidato a una testata gestita da giornalisti già iscritti all’Ordine, con un direttore responsabile “ordinisticamente riconoscibile”. Liberalizzare l’accesso al praticantato – ancorandolo a una sostanziale “auto-certificazione” – pare andare in direzione opposta: e questo a maggior ragione quando la questione delle fake news sta diventando centrale e critica a livello globale nell’era dei social media.

La “deregulation” sull’accesso al lavoro giornalistico appare invece una risposta in sé coerente alla crisi del mercato del lavoro giornalistico legata alla profonda crisi del settore editoriale (certamente in Italia). Togliere per i candidati praticanti l’obbligo dell’assunzione con contratto nazionale a testate dirette da un direttore “ordinistico” certamente andrebbe a eliminare barriere e distorsioni: laddove sarebbe necessario solo produrre contenuti giornalistici (anche per soggetti non editoriali) e ricevere il cosiddetto “equo compenso”. Ma questa è palesemente una questione sindacale non ordinistica. Come assumere giornalisti e quanto pagarli è compito della “corporazione giornalistica” (Fieg-Fnsi) tuttora funzionante. E se agli editori è chiesto di tenere competitive le proprie imprese, il sindacato è chiamato invece a promuovere il più possibile l’occupazione.

Che cosa invece sia successo nell’editoria giornalistica in Italia dopo il 2000 è purtroppo noto nello stillicidio di conti in rosso, licenziamenti, stati di crisi, prepensionamenti. Il dissesto dell’Inpgi (assorbito dall’Inps nella sua gestione principale) è stato duramente simbolico di un settore che ha dovuto bruciare i suoi “tesoretti” previdenziali per mantenere in vita testate non più competitive; e ha visto inaridirsi i contributi da parte di nuovi assunti. Nel frattempo migliaia di giovani hanno comunque iniziato a “fare i giornalisti” in un oceano di precariato e soprattutto in una media industry sconvolta dalla rivoluzione digitale. Ora l’Ordine sembra finalmente prendere atto delle praterie selvagge dove i “nuovi giornalisti” sono comunque riusciti a nascere e sopravvivere: ma nei fatti ignorati dall’Ordine-sindacato del giornalismo “corporativo”. La soluzione del problema non appare tuttavia una rapida apertura delle porte dell’Ordine ai blogger (spesso in possesso di competenze professionali sconosciute a molti giornalisti tradizionali, iscritti all’Ordine).

Il problema va anzitutto affrontato all’interno della “corporazione”: dagli editori e dal sindacato, al momento ancora unico. Sono loro – attraverso lo strumento principale della contrattazione – che devono rifissare tutte le cifre-quadro (dagli investimenti ai sistemi retributivi) di un’industria giornalistica – privata – di nuovo competitiva. Il Governo ha il diritto-dovere di aiutare un settore in crisi: eventualmente anche con aiuti pubblici mirati e negoziati con le parti sociali (la transizione digitale appare una traiettoria dedicata nella prospettiva Pnrr). Certo, può darsi che nel corso di una fase “ri-costituente” dell’editoria giornalistica nazionale si appuri la necessità di un passo “post-fascista”, abolendo o superando un ordine creato prima della democrazia in onore del Duce. Sarà invece compito dei giornalisti di oggi (chiunque potrà chiamarsi tale) verificare se una “gilda” nazionale unica sia ancora il miglior veicolo di rappresentanza dei propri interessi (economici e professionali). Oppure se il nuovo mercato privilegi una contrattazione più decentrata o promuova la nascita di un pluralismo sindacale.

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