Dopo il Los Angeles Times anche il Washington Post non pronuncerà endorsement per le presidenziali di martedì 5 novembre. Entrambi i silenzi rompono una tradizione duplice: quella che vede le grandi testate Usa dichiarare in anticipo la loro preferenza fra i due candidati alla Casa Bianca; e quella, più concreta e cruciale, che ha visto il quotidiano-leader della capitale federale e il suo cugino californiano esprimersi negli ultimi decenni sempre a favore del candidato dem. E Kamala Harris è da quattro anni residente a Washington come vicepresidente di Joe Biden, dopo esserci arrivata nel 2017 come senatrice della California.
Due casi diversi e simili, quelli di due giornali separati da tre fusi orari ma accomunati dal colore blu: quello dei “dem”. Che si sono imposti nettamente nelle recenti presidenziali – anche in quelle perdute nel 2016 – sia in California sia nel District of Columbia. Anche con l’appoggio dei grandi media.
Sia al WP che che LATimes la decisione di mantenere la neutralità fra Harris e Donald Trump è stata presa dai proprietari. Due tycoon miliardari: a Washington il patron di Amazon, Jeff Bezos; a Los Angeles lo scienziato-businessman di radici cinesi Patrick Shiong-Soon. In ambedue i casi la scelta editoriale è stata pubblicamente criticata dal corpo redazionale.
“Per il Post la peggior scelta nel peggior momento”, ha titolato un op-ed firmato da Ruth Marcus, vicedirettrice del WP, da 40 anni in redazione. Vi è entrata quando l’editrice era ancora Kathy Graham e il direttore Ben Bradlee: I due leggendari “super-eroi” del Watergate, immortalati da più di un film hollywoodiano. Dei due reporter d’assalto che distrussero la presidenza di Richard Nixon, Carl Bernstein e Bob Woodward, il secondo mantiene il titolo di vicedirettore onorario del Post.
Oggi quel Post nega il suo appoggio aperto e preventivo ad Harris contro un candidato repubblicano dipinto a tinte molto più fosche a apocalittiche di Nixon. Le ragioni sembrano d’altronde abbastanza leggibili. Quando il Ceo del Post, Will Lewis, ha motivato la scelta no-endorsement con l’opportunità di tornare a “origini” di neutralità giornalistica è parso confermare nei fatti l’estrema incertezza sugli umori degli elettori: e quindi l’opportunità – forse elementare per il giornale dirimpettaio della Casa Bianca – di tenersi le mani libere con qualunque Presidente eletto. Uno “specifico Bezos”, tuttavia è innegabile e di dimensioni non banali.
Da un lato l’inventore di Amazon – come milioni di uomini d’affari americani grandi o piccoli – appare chiaramente poco convinto della nebulosa piattaforma economica di Harris: in cui l’unico dato certo è una manovra fiscale sostanzialmente punitiva verso imprese e grandi patrimoni, a fianco a suggestioni di “controllo dei prezzi” da parte della FTC, l’autorità’ antitrust statunitense. E su questo snodo è ben percepibile uno “specifico nello specifico”. L’ala radicale dei “dem” sta infatti imponendo ad Harris di confermare alla FTC la giovane “zarina” Lina Khan: che ha faticosamente avviato una crociata contro tutti i giganti digitali, accusati sia di monopolio che di scarso rispetto della privacy degli utenti. Khan ha già aperto le ostilità contro Amazon, un anno fa, per abuso di posizione dominante nell’e-commerce. Ma l’azione non verrà discussa davanti a una corte federale prima di fine 2026.
A cavallo fra politica e affari è anche il caso LATimes. Qui i protagonisti sono tre.
Il proprietario Soon-Shiong è nato in Sudafrica 72 anni fa da genitori cinesi, profughi dallo Guangdong occupato dalle truppe giapponesi. Vanta un curriculum duplice: è un medico, professore all’Università di California e all’Imperial College di Londra. Specialista in trapianti, ha poi contribuito in modo determinante alla messa a punto dell’antitumorale Abraxane. Successivamente fondatore di NantWork, una rete di start-up biomediche, Soon Shiong ha accumulato un patrimonio stimato in 6 miliardi di dollari: considerato il più cospicuo di Los Angeles (comprende anche una quota del club cestistico dei Lakers). Ha comprato il LA Times nel 2018 da una holding editoriale nazionale per mezzo miliardo di dollari cash assieme al San Diego Union Tribune, sempre in California: Stato melting pot – il più popoloso negli Usa – che ospita oltre 7 milioni di asian-american, un quinto degli abitanti. Fra di essi si annovera anche Harris, nelle sue radici tamil a fianco di quelle afro-americane di ramo caraibico.
Executive editor (direttore) del LATimes è Terry Tang: nata a Taiwan, formatasi nelle migliori università della East Coast americana, premessa di una carriera di sicuro successo, sancita da 20 anni di incarichi di crescente prestigio presso il liberal New York Times. A lei rispondeva fino a qualche giorno fa Mariel Garza, responsabile delle pagine dei commenti editoriali, un intero curriculum nel giornalismo californiano fino all’approdo nella testata-leader nello Stato.
È stata Garza ad annunciare – a sorpresa e con molto clamore – le proprie dimissioni, motivandole con il divieto ricevuto alla pubblicazione di un endorsement formale dell’editorial board – il collegio degli opinionisti del giornale – a favore di Harris. La caporedattrice ha rimesso il suo incarico nelle mani della direttrice, ma a risponderle è stato direttamente l’editore. Soon-Shiong – in un post su X – ha affermato che “l’editorial board ha disatteso la direttiva di articolare un’analisi fattuale di tutte le politiche positive e negative adottate da ciascuno dei due candidati durante la loro permanenza alla Casa Bianca, illustrando quali impatti tali politiche hanno avuto sulla nazione”. Nella sostanza lo stesso approccio “equidistante” di Bezos.
Soon-Shiong è naturalmente anche un filantropo di prima fascia, attraverso una serie di fondazioni gestite dalla moglie: lei pure cinese nata in Sudafrica. Nel 2016 la famiglia ha effettuato donazioni importanti alla candidata dem Hillary Clinton, poi sconfitta da Trump nonostante il favore dei californiani. La principale fondazione della famiglia Soon-Shiong è partner della Clinton Foundation (creata dall’ex presidente Usa) in programmi di ricerca medica, anche se questo non ha impedito al tycoon di coltivare agganci nel campo di Trump: secondo alcune indiscrezioni addirittura a caccia di un incarico nella futura amministrazione di Washington.
Il suo resta comunque un segnale forte che il big business californiano – quello largamente incarnato dall’economia tecnologica e a lungo narrato come saldamente democratico – sembra oggi molto attratto da Trump rispetto alla candidata dem di casa. E ancor di più pare prendere sul serio le chance di vittoria del Presidente ricandidato. E nessuno ha dimenticato che l’inizio della rovinosa caduta di Joe Biden è maturato in giugno in una cena di grandi donatori californiani, poco prima del duello tv con Trump.
Forse c’è’ dell’altro. Lo scontro fra un miliardario cinese ma non certo amico della Cina popolare; una direttrice nata a Taiwan e una giornalista invece all-american-dem sembra accendere spie luminose geopolitiche. Sul “fronte Pacifico” Trump è stato chiaro. Con la Cina gli Usa sono chiamati a confrontarsi con le maniere forti: protezionistiche sul piano commerciale e ferme nell’impegno militare, senza esitazioni sulla difesa di Taiwan. Harris, invece, non è riuscita a essere decisa neppure su questo: esattamente come non è stata puntuale sulle sue eventuali mosse – una volta alla Casa Bianca – sul fronte russo-ucraino e su quello mediorientale.
Un caso che in superficie sembra circoscritto a un conflitto classico – fra “libera stampa” (dem) e “grande capitalismo” (ripubblicano) – ha peraltro per teatro una California ormai lontana dalle mille luci di qualche anno fa. Da un lato gli eccessi della finanza hi-tech, dall’altro l’ideologia politically correct hanno rapidamente sconvolto una metropoli globale come San Francisco. Alle soglie della pandemia la capitale della Silicon Valley sommava il massimo dell’inaccessibilità dei prezzi immobiliari (fonte di una fiumana di homeless di ogni genere) e della permissività nei confronti di una crescente criminalità. Non è sorprendente nemmeno che Frisco sia divenuta uno dei grandi “inferni del Fentanyl” negli States. È una California dem – plasmata anche da Harris – che è via via piaciuta sempre meno agli asian-american. Le “mamme-tigre” cinesi – sempre più insoddisfatte e critiche dei college Usa, sempre più assorbiti dall’ideologia Diversity-Equality-Inclusion – hanno avuto in California un laboratorio esemplare: fornendo una specifica smentita del vecchio teorema per cui negli Stati Uniti qualsiasi minoranza è per definizione vicina ai “dem”.
Fra poco più di una settimana, comunque, ogni rebus sarà sciolto: a Washington come a Los Angeles.
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