Spente le luci del festival della canzone, mentre purtroppo non smettono di “suonare” i cannoni della “operazione speciale” in Ucraina, l’opinione pubblica italiana viene nuovamente avvolta dalla nube tossica sprigionata dall’irrisolvibile nodo del rapporto fra giustizia e politica. Al poco ragionevole regime detentivo del 41 bis all’anarchico Cospito, fa eco l’ennesima assoluzione che arricchisce la saga delle vicende processuali di Berlusconi e riprende così corpo la richiesta della politica di processare la magistratura.
Quando finirà tutta questa tensione che ci impedisce di fatto di concentrarci su ciò che sarebbe più urgente, ovvero garantire alla macchina della giustizia italiana di poter funzionare? Ancora odora di stampa la riforma Cartabia ma già si parla delle nuove riforme, anche costituzionali, che iniziano a essere presentate in Parlamento, partendo dall’agognata separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, che neanche i governi delle leggi ad personam riuscirono a varare stante la condizione patologica di inagibilità in cui versava in quegli il confronto pubblico in tema di giustizia.
Sono ormai trent’anni che la discussione in materia di giustizia resta ipotecata da fanatismi dogmatici e preconcetti demagogici, con l’effetto di inibire qualunque tentativo di sviluppare un pacato confronto delle idee in grado di raggiungere, se non forme di intesa, almeno esiti di ciò che qualcuno ha definito di razionalità discorsiva. Quella stagione non sembra francamente superata, sebbene abbia perso un certo vigore dialettico, come dimostra il tentativo di confronto intorno al bel testo di Alfonso Barbano.
Siamo tuttavia ancora tristemente lontani dall’individuare quel punto di equilibrio fra poteri dello Stato che riesca a garantire il controllo della legalità su fatti concreti aventi rilevanza penale, purgandolo del controllo giudiziario ispirato dal massimalismo giustizialista dell’intransigenza etica. Secondo molti, appare forse giunto il tempo che l’amministrazione della giustizia abbandoni quelle connotazioni ieratiche di fanatismo religioso che ha generato una situazione di irresponsabilità, di privilegio, di refrattarietà e insofferenza ad ogni critica in cui la magistratura si è arroccata in questo trentennio, come diceva Sciascia svariati anni fa.
Al contempo, non si possono alimentare vendette in stile gasparriano, declamando a gran voce l’esistenza di un cancro chiamato magistratura solo perché Berlusconi viene assolto. Sono note le regole della dialettica politica, ma ciò che occorre è costruire, o meglio ricostruire, le basi di una società democratica, in cui alla contrapposizione fine a sé stessa si sostituisca la consapevolezza della drammaticità del momento storico che si sta vivendo.
E il presupposto non può che essere quello di garantirsi reciproco rispetto, magari partendo dal riconoscere che la vituperata classe politica del dopoguerra ci ha pur sempre consentito di ricostruire un’economia da Paese occidentale, così come la magistratura ha consentito grazie al suo impegno, anche con il sacrificio di vite umane, di sconfiggere fenomeni come quello del terrorismo e di arginarne altri come quello della criminalità organizzata.
Dovremmo provare a ringraziare entrambi per il lavoro svolto e amnistiare i rispettivi eccessi, voltando realmente pagina, iniziando a lavorare sulla ricostruzione del sistema giudiziario.
Lo diciamo già da un po’: i pannicelli caldi non possono più bastare. La sfiducia dei cittadini nell’una e nell’altra istituzione ha raggiunto soglie al di sotto di quella di allarme. La nostra, è noto, è una democrazia giovane – per i suoi primi 40 anni ha anche vissuto nel limbo della guerra fredda – che deve riuscire a definire in termini compiuti il tema della separazione dei poteri, tra azione della giurisdizione e prerogative dell’esecutivo. La magistratura, se ne faccia una ragione, deve abbandonare la pretesa più o meno dichiarata di accreditarsi come la sola istituzione legittimata a stabilire cosa sia etico e cosa non lo sia, battezzando le condotte non gradite nell’orbita della censurabilità penale, come evocato da un maestro del diritto penale, Giovanni Fiandaca. Non sia ritenuto atto di blasfemia assumere che ad esempio Mani pulite non ha sconfitto la corruzione, ma ha, da un canto, spazzato via la classe dirigente che aveva retto il governo politico del Paese e, dall’altro, affossato i partiti nati dalla Resistenza, così generando un’operazione che si è risolta in un “trauma costituzionale” del quale non si vede la via d’uscita. Fermo restando ovviamente che la corruzione era divenuta dilagante e non era certo un’enfatica invenzione dei magistrati.
Occorre allora fare uno sforzo per superare, da un lato, quel populismo giudiziario che ha indotto parte dei magistrati a ricercare il consenso popolare come fonte di vera legittimazione di un’azione giudiziaria, e dell’altro, l’oggettiva incapacità dimostrata in tutti questi anni dalla classe politica di produrre figure pubbliche affidabili, qualificate, serie, che magari sappiano discernere le false attribuzioni di appartenenza familiare con capi di governo esteri. Quanto ci manca quell’Aldo Moro mostratoci dalla fiction televisiva che la sera, tornando a casa, si cucinava nel silenzio della sua cucina un uovo sodo.
Per non coltivare solo lo sconforto, ci piace dare rilevanza a quanto affermato dal nuovo vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, che all’atto della sua nomina ha affermato come sia necessario che l’organo di autogoverno della magistratura torni all’esercizio fisiologico delle proprie funzioni, con un rinnovato impegno di correttezza, trasparenza, fedeltà al proprio mandato costituzionale, per ricostituire quel tessuto di lealtà istituzionale e di legittimazione democratica che in alcuni momenti è sembrato lacerarsi, non nascondendo sotto il tappeto che, ad esempio, in tema di nomine degli incarichi direttivi ci sono procedimenti pendenti dal 2018 e che tutte quelle del 2022 non sono state mai affrontate. Apprezzabile che egli abbia dichiarato, evocando una qualche autocritica al sistema, come occorra dimostrare che ciascun neo-consigliere deve essere, e dimostrare di essere, efficiente, corretto e trasparente per fare sì che allo sguardo esterno il Consiglio ritorni ad essere un’istituzione meritevole della fiducia di coloro che subiscono gli effetti delle sue determinazioni, e quindi, prima di tutto, dei cittadini che quotidianamente vengono coinvolti nelle attività degli uffici giudiziari, ma anche degli stessi magistrati che guardano all’organo di autogoverno come un riferimento e che oggi si sentono sfiduciati e a volte abbandonati.
In fondo, siamo tutti cittadini della medesima repubblica. Rimbocchiamoci le maniche.
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