Per me,
la sussidiarietà è la Terza Via. O, almeno, è la via che passa tra l’idolatria
dello Stato della vecchia sinistra e l’idolatria di Mammona della nuova destra.
Diciamo che è la via della persona, e della comunità delle persone; di solito
irriducibile, a meno di gravi forzature, ai rigori dello statalismo e del
mercatismo.
Germi di
sussidiarietà non sono estranei alla storia della sinistra sociale. Prima della
rivoluzione d’Ottobre, prima che la terribile ybris di chi sperò di poter costruire
il socialismo in un Paese solo costringesse la sinistra politica a idolatrare
lo Stato, cooperative e società di mutuo soccorso erano il socialismo. E prima
ancora lo era l’utopia fabiana. Non tutta la sinistra è post-comunista, in
Europa e nel mondo. E anzi, meno marxista è, e più sa fare i conti con la
sussidiarietà. Nel laburismo britannico, per esempio, è stata questa la leva
usata per fuoriuscire da una tradizione politica intransigente sul ruolo
redistributivo dello Stato, ed entrare nell’era moderna di un welfare attivo,
in cui lo Stato non eroga ogni servizio, ma regola i servizi erogati; sapendo
dunque aprirsi alla partnership con il privato sotto qualsiasi forma: di
profitto e di non profit.
Non è una
folgorazione sulla via di Damasco quella che ha portato i modernizzatori a fare
proprio il principio della sussidiarietà. Non è una scelta (solo) etica. È
anche una necessità. Nelle società moderne, lo Stato non è più in grado di fare
in prima persona tutto ciò di cui ha bisogno la comunità. Innanzitutto per una
questione di risorse. La cura della salute, della vecchiaia e della formazione
dei giovani sono esigenze destinate a diventare troppo vaste perché la mano
pubblica possa soddisfarle in prima persona con i soldi di cui dispone; e ogni
idea di accrescere i soldi di cui dispone per via fiscale strangolerebbe
un’economia già troppo asfittica, oltre che essere una strada elettoralmente
impercorribile per qualsiasi governo.
Ma la
necessità non nasce solo da una questione di soldi. È la qualità dei servizi
che lo Stato non è più in grado di assicurare, quando sono servizi alla
persona. Tra una badante e un’impiegata comunale c’è un abisso di umanità e di
flessibilità che lo Stato non è in grado di colmare. E pensiamo alla scuola: se
essa è educazione, oltre che istruzione, come immaginare di fare a meno dei
genitori e delle famiglie, affidandola a burocrazie che, per quanto sensibili,
restano pur sempre tali?
Tutto ciò
che può fare l’individuo, è meglio che non lo faccia lo Stato. È il primo
comandamento della sussidiarietà e deve diventare il primo comandamento nel
governo moderno di una società complessa. Dal suo rispetto deriva anche la
capacità di affrontare l’apparentemente intrattabile questione fiscale. Essa
non può essere più letta dal centrosinistra in termini antichi, come l’eterna
lotta tra i tartassati e gli evasori, nella convinzione ingenua che siccome i
tartassati sono sempre più degli evasori, ci si possa vincere le elezioni.
Questo è stato il grande abbaglio della campagna elettorale. Che viene da
lontano, da quando qualcuno ha convinto i leader del centrosinistra che l’era
della rivolta fiscale dei ceti medi era finita, e che la gente in Europa era
tornata disponibile a uno scambio tra più tasse e più servizi. Così non è, e lo
abbiamo visto con plastica efficacia nel voto di quella metà degli italiani che
ha scelto il centrodestra, nonostante la pessima prova fornita dal governo, pur
di non scegliere la via della redistribuzione della ricchezza per via fiscale.
La verità è che esiste un forte e resistente sentimento morale che chiede allo
Stato più libertà nel gestire la propria vita e la propria ricchezza.
Restituitemi un po’ dei miei
soldi, e in cambio avrete più partecipazione attiva allo sforzo collettivo per
produrre ricchezza: questo dicono oggi i ceti medi. Che non sono fatti solo di
egoisti sociali, di individualisti, di gente che se ne infischia di come va
l’Italia purché vadano bene loro. Una percentuale di stolti certamente c’è, e
concepisce la vicenda nazionale come una storia ad personam. Ma un uso premiante del fisco,
che ridia indietro risorse a chi si propone di usarle per il bene collettivo, è
una via politicamente ed economicamente percorribile.
Far
pagare meno tasse a chi dona, meno tasse a chi svolge funzioni di coesione
sociale, meno tasse alle famiglie che producono educazione, meno tasse ai
genitori che non gravano sul sistema statale di istruzione, meno tasse a chi
innova, meno tasse a chi intraprende invece di aspettare l’assunzione nel
pubblico impiego, è paradossalmente l’unica via di ridurre la spesa pubblica. È
un do ut des,
non un’elargizione. È una remunerazione di funzioni pubbliche, perché non tutto
ciò che è nell’interesse pubblico è statale. È una via che rispetta ed esalta
la libertà, senza pretendere di piegarla ad astratte idee di giustizia sociale,
così difficili da definire che in campagna elettorale non siamo neanche stati
in grado di decidere che cos’è un ricco e quando deve essere punito per la sua
ricchezza. È una via che rimette al centro la persona, perché non ha la
presunzione di decidere negli uffici di un ministero che cosa sia meglio per la
vita di una persona.