Secondo i dati diffusi dall’Istat il 19 settembre scorso, nel semestre gennaio-giugno di quest’anno il valore delle esportazioni italiane ha registrato un aumento dell’11,6% rispetto allo stesso periodo del 2006 (+12% verso i Paesi europei e +11% verso l’area extra Ue). La crescita delle esportazioni ha riguardato tutte le ripartizioni territoriali; incrementi superiori alla media si registrano per l’Italia insulare (+23,4%) e per l’Italia centrale (+15,1%).
Ragionare su questo recente trend dell’export è il miglior modo di interrogarsi sulla competitività complessiva dell’Azienda Italia. Come afferma il rapporto Isae di primavera, la dinamica della bilancia commerciale mostra i segni della ristrutturazione di medio periodo compiuta delle imprese italiane sotto il vincolo dell’euro e la pressione della nuova concorrenza asiatica. Ma non tutto è oro quel che luccica: quando a luglio i mercati finanziari già scricchiolavano, l’analisi annuale Istat-Ice avvertiva che il sistema-Italia non aveva approfittato pienamente del ciclo tornato progressivamente favorevole dopo l’11 settembre 2001: per il commercio internazionale il 2006 è stato un anno di boom (+9%), ma la quota italiana si è leggermente contratta (dal 3,5 al 3,4%). E i segnali per il prossimo futuro non sono rassicuranti: il terremoto-subprime, il rafforzamento dell’euro sul dollaro – giunto a livelli record -, la “convalescenza” faticosamente programmata dalle banche centrali (Fed e Bce) per il sistema bancario acciaccato dalle perdite su mutui e derivati, con l’inevitabile “razionamento del credito”, difficilmente eviteranno (almeno in America ed Europa) un raffreddamento tendenziale dell’economia.
Il quadro è aggravato dal fatto che altri sono più competitivi di noi in quanto, nel lungo periodo, la forza sui mercati esteri è proporzionale alla dimensione aziendale e quindi non soddisfacente per molte Pmi italiane. In definitiva, lo spunto dell’export nel primo semestre è la prova che «competitivi si può essere»: ma ora che il match si farà più duro, la competitività va sostenuta da una politica economica razionale maggiore.
Si capisce perciò come sia drammatico che la pressione fiscale sia alle stelle, la spesa pubblica crescente, le infrastrutture necessarie per lo sviluppo e la politica energetica bloccate da mille veti; il sistema dell’istruzione, del welfare e il mercato del lavoro paralizzati da un neostatalismo asfissiante; la politica estera altalenante e incerta, soprattutto per un sostegno sistematico del commercio con l’estero.
Si capisce come sia drammatico che il Governo di centrosinistra sia ormai paralizzato da una sinistra radicale che, unica in Europa, si ispira esplicitamente al comunismo e coerentemente cerca di seguirne i dettami 18 anni dopo la caduta del muro, e che l’opposizione stenti a trovare una unità intorno a contenuti e progetti politici chiari ed espliciti. Per non perdere definitivamente il treno dello sviluppo serve perciò un urgente accordo bipartisan fra riformisti per una cosciente e razionale politica economica a servizio del Paese: tutto il resto, soprattutto i roboanti proclami mediatici della politica e dell’anti-politica, sono solo giochi suicidi.
Ragionare su questo recente trend dell’export è il miglior modo di interrogarsi sulla competitività complessiva dell’Azienda Italia. Come afferma il rapporto Isae di primavera, la dinamica della bilancia commerciale mostra i segni della ristrutturazione di medio periodo compiuta delle imprese italiane sotto il vincolo dell’euro e la pressione della nuova concorrenza asiatica. Ma non tutto è oro quel che luccica: quando a luglio i mercati finanziari già scricchiolavano, l’analisi annuale Istat-Ice avvertiva che il sistema-Italia non aveva approfittato pienamente del ciclo tornato progressivamente favorevole dopo l’11 settembre 2001: per il commercio internazionale il 2006 è stato un anno di boom (+9%), ma la quota italiana si è leggermente contratta (dal 3,5 al 3,4%). E i segnali per il prossimo futuro non sono rassicuranti: il terremoto-subprime, il rafforzamento dell’euro sul dollaro – giunto a livelli record -, la “convalescenza” faticosamente programmata dalle banche centrali (Fed e Bce) per il sistema bancario acciaccato dalle perdite su mutui e derivati, con l’inevitabile “razionamento del credito”, difficilmente eviteranno (almeno in America ed Europa) un raffreddamento tendenziale dell’economia.
Il quadro è aggravato dal fatto che altri sono più competitivi di noi in quanto, nel lungo periodo, la forza sui mercati esteri è proporzionale alla dimensione aziendale e quindi non soddisfacente per molte Pmi italiane. In definitiva, lo spunto dell’export nel primo semestre è la prova che «competitivi si può essere»: ma ora che il match si farà più duro, la competitività va sostenuta da una politica economica razionale maggiore.
Si capisce perciò come sia drammatico che la pressione fiscale sia alle stelle, la spesa pubblica crescente, le infrastrutture necessarie per lo sviluppo e la politica energetica bloccate da mille veti; il sistema dell’istruzione, del welfare e il mercato del lavoro paralizzati da un neostatalismo asfissiante; la politica estera altalenante e incerta, soprattutto per un sostegno sistematico del commercio con l’estero.
Si capisce come sia drammatico che il Governo di centrosinistra sia ormai paralizzato da una sinistra radicale che, unica in Europa, si ispira esplicitamente al comunismo e coerentemente cerca di seguirne i dettami 18 anni dopo la caduta del muro, e che l’opposizione stenti a trovare una unità intorno a contenuti e progetti politici chiari ed espliciti. Per non perdere definitivamente il treno dello sviluppo serve perciò un urgente accordo bipartisan fra riformisti per una cosciente e razionale politica economica a servizio del Paese: tutto il resto, soprattutto i roboanti proclami mediatici della politica e dell’anti-politica, sono solo giochi suicidi.
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