Avere un’agenda è già una grande conquista per un governo. Non tutti i governi hanno un’agenda. Né tutti i governi che ce l’hanno, o dichiarano di averla, sono capaci di farla vivere nel Paese e nel Parlamento, nell’attività legislativa e nell’opinione pubblica. La grande differenza tra i governi che galleggiano e i governi che agiscono è tutta nella capacità di affermare e perseguire un’agenda: un’idea del Paese che si vuole costruire e un sistema di politiche adeguate per concretizzarla. Il bipolarismo ha questo indiscutibile vantaggio: lasciando scegliere agli elettori il governo, gli garantisce anche una certa durata, nei migliori dei casi una durata pari a quella della legislatura, aiutandolo così nel difficile compito di avere e praticare un’agenda, su cui poi essere giudicato alla fine della legislatura. Il governo Prodi, nella sua lunga fase di gestazione e di rodaggio (ha appena raggiunto i nove mesi dal concepimento elettorale, avvenuto peraltro con difficoltà e per un margine minimo che non gli ha garantito nemmeno la breve luna di miele di solito concessa dall’elettorato ai governi) ha appunto tentato, con alterni risultati, di darsi un’agenda. Il programma ce l’aveva, ne aveva anzi troppo, a causa della necessità di mettere insieme così tanti partiti e così tante anime. Ma il programma non è l’agenda. L’agenda è l’elenco delle cose da fare per ottenere i risultati indicati nel programma, e il modo di spiegarle all’opinione pubblica in maniera tale da creare consenso per la sua azione. Si dice anche che un governo è efficace quando è in grado di imporre la sua agenda, di decidere cioè quali sono le priorità e di far discutere su di esse anche l’opposizione, costringendola a confrontarsi sul suo terreno. Da questo punto di vista, due tratti chiari sono emersi finora dall’agenda del governo Prodi. Il primo è il risanamento finanziario, correttamente indicato come conditio sine qua non per sostenere la ripresa e trasformarla in crescita duratura e stabile, curando così il grande male dell’Italia, Paese che da dieci anni non cresceva e che non sembrava nemmeno più in grado di intercettare i venti della ripresa mondiale ed europea. Il secondo elemento chiave dell’agenda del governo è la spinta alle liberalizzazioni dei mercati, e più in generale un’azione in difesa del consumatore che butti giù i prezzi dei servizi e apra spazi all’intrapresa economica e alla crescita dell’occupazione: tutto ciò che passa per pacchetto Bersani, integrato e stimolato dall’agenda Rutelli. Il risanamento finanziario Il risanamento finanziario, con la massiccia manovra varata con la Finanziaria, è oggi un obiettivo possibile e a portata di mano. Si tratta di un fatto di notevole importanza, perché un Paese che continua a pagare settanta miliardi di euro di interessi all’anno per finanziare il suo gigantesco debito pubblico ha, rispetto agli altri competitori europei, la metà delle risorse da riservare all’ammodernamento dei propri sistemi pubblici, alla ricerca, alla scuola, a un moderno welfare. Fuor di dubbio, però, questa parte dell’agenda del governo non ha incontrato il favore dell’opinione pubblica. Non se ne è avvertito il contenuto orientato allo sviluppo, mentre se ne è sentito fino in fondo il tradizionale ricorso all’aumento della pressione fiscale, soprattutto da parte di un Paese in cui la pressione fiscale era già stata fortemente accresciuta dall’ultima Finanziaria del governo Berlusconi. In più, il governo ha posto un’enfasi eccessiva sul tema della giustizia sociale, lasciando credere che la Finanziaria fosse in qualche modo l’occasione per riparare ai torti dell’era Berlusconi. Questo ha acceso una rincorsa di aspettative tra numerosissime categorie sociali, ognuna delle quali si è poi sentita colpita quando non ha avuto ciò a cui mirava e che si aspettava. Resta il riequilibrio dei conti pubblici, risultato non da poco, e giustamente cercato con maggiore determinazione in un momento di maggiore crescita del Paese, che da una parte pare aver agganciato la ripresa europea, in particolare tedesca, e dall’altra sembra mostrare i primi segni di un sistema produttivo rinnovato, uscito finalmente dalla grande ristrutturazione e selezione provocata dall’euro, e oggi più in grado di reggere la competizione sui mercati internazionali. Le liberalizzazioni Tutt’altra accoglienza ha avuto la seconda gamba dell’agenda del governo, quella dedicata alle liberalizzazioni. Nonostante la miriade di proteste di corporazioni e di categorie toccate dalle aperture dei mercati decise dal governo, è indubitabile che l’opinione pubblica abbia avvertito le liberalizzazioni come più coerenti con l’obiettivo dichiarato in campagna elettorale, quello di far tornare l’Italia a crescere, liberando le energie del suo sistema produttivo. Si tratta di una grande novità nello spirito pubblico del nostro Paese, un consenso che va sfruttato fino in fondo per realizzare le riforme necessarie, senza eccessive timidezze e paure. Non è infatti casuale che il governo di centrodestra, nei cinque anni precedenti, non abbia neanche tentato un’operazione che pure dovrebbe essere nelle sue corde ideali e politiche. Evidentemente Berlusconi non se la è sentita di sfidare categorie e interessi costituiti, ritenendoli più forti di quanto in realtà non fossero e giudicando il consenso popolare più debole di quanto in realtà sia. Si potrebbe quasi affermare che il centrodestra abbia arato il terreno, con il suo proselitismo in favore delle libertà economiche e dell’impresa, e che il centrosinistra stia seminando quel campo, con un’inversione dei ruoli storici tra destra e sinistra che meriterà qualche riflessione più approfondita in futuro. Il problema del governo Prodi è ora di dare continuità, sostanza e credibilità a quell’agenda. È evidente, per esempio, che un programma di liberalizzazioni che riguardasse soltanto barbieri, tassisti e avvocati, alla lunga non darebbe i frutti sperati di crescita e di occupazione, anzi, creerebbe risentimenti e spaccature nella società. È insomma indispensabile procedere con decisione nel colpire interessi corporativi ben più corposi, a partire dal mercato dell’energia e delle banche, la cui liberalizzazione potrebbe dare una spinta molto potente alla crescita, e dal mercato dei servizi pubblici locali, sicuramente uno dei settori maggiormente suscettibili di apertura a soggetti nuovi, non solo imprese private ma anche cooperative. Una riforma in questo settore, contenuta nel disegno di legge Lanzillotta ma ancora oggetto di trattative tra le varie componenti della coalizione, sarebbe tra l’altro uno strumento di potenziale moralizzazione di quello che viene chiamato il neosocialismo municipale, che ha prodotto la nascita di un numero abnorme di società miste, sulle quali troppo forte è la presa della politica, con costi troppo alti scaricati dalla politica sul sistema pubblico. Allo stesso tempo, l’attacco ai monopoli privati non può escludere un’opera di rinnovamento dei monopoli pubblici: sarebbe ben strano infatti, se il governo agisse nei confronti di mercati chiusi lasciando però intatto il mercato protetto in cui esso stesso è monopolista, quello della pubblica amministrazione. Ai fini della ripresa è indispensabile accrescere fortemente l’efficienza e la neutralità di questo servizio, fondamentale nelle società moderne, di fronte al quale il cittadino non ha la scelta del consumatore, che può cambiare negozio o operatore di telefonia se il servizio è troppo caro o poco efficiente, ma non ha neanche voce, perché il suo interesse non è rappresentato. Il memorandum per la pubblica amministrazione firmato tra governo e sindacati, pur ricco di buone intenzioni, andrebbe riempito di scelte e provvedimenti concreti sia per garantire un’effettiva mobilità del personale, sia per consentire al cittadino, magari attraverso un’authority ad hoc, un controllo sull’efficienza del servizio, premiando il merito e punendo il demerito attraverso un sistema di incentivi salariali veramente differenziati, e non concessi a pioggia in ossequio a un egualitarismo sindacale di vecchio stampo. Ma è fuor di dubbio che il campo sul quale si deciderà l’efficacia dell’agenda del governo e la sua corrispondenza agli obiettivi di crescita indicati in campagna elettorale è quello della riforma del welfare, innanzitutto a partire dal sistema previdenziale. È noto a tutti lo squilibrio della nostra spesa sociale a vantaggio delle pensioni, con conseguenze negative per le tutele al reddito, la formazione professionale, gli ammortizzatori sociali, un welfare moderno per la persona, tutti elementi essenziali di una vera e moderna giustizia sociale, ma anche decisivi per sostenere le necessarie trasformazioni produttive cui l’Italia sta andando incontro. Troppo alle pensioni e troppo poco al welfare, questo è il nostro problema. Occorrerebbe che il governo indicasse con chiarezza lo scambio che propone, non presentando la riforma delle pensioni come un fattore puramente punitivo, seppur giustificato dal corretto obiettivo di adeguare l’età pensionabile all’effettivo e spettacolare aumento dell’aspettativa di vita della popolazione. Voglio dire che rimettere in equilibrio il sistema previdenziale, in modo che tra vent’anni i giovani di oggi possano ricevere una pensione decente senza pesare in maniera insopportabile sulla fiscalità generale, è anche il modo migliore per dislocare risorse, e grandi risorse, verso la riforma di un welfare oggi asfittico e sostanzialmente ingiusto. Più ai figli, se si dà meno ai padri: se un anno di età pensionabile in più per un sessantenne viene compensato da un anno di sostegno al reddito del figlio trentenne alle prese con la flessibilità e le turbolenze del mercato del lavoro, allora risulta evidente e conveniente lo scambio sociale e si può costruire consenso intorno a un’agenda di governo riformista. Il consenso: ostacolo maggiore Il consenso: questo è oggi l’ostacolo maggiore alla realizzazione dell’agenda del governo Prodi. Innanzitutto consenso nella coalizione, nella quale godono di una forza e di una capacità di condizionamento abnorme, rispetto ad altre democrazie europee, partiti e movimenti di una sinistra conservatrice, ancora legati a un’idea antica di giustizia sociale, da misurare con la quantità di spesa pubblica, senza comprendere che la spesa pubblica allontana risorse dallo sviluppo, perché oltre un certo livello l’imposizione fiscale rischia di strangolare l’economia con effetti negativi per tutti, a partire proprio dai settori più deboli della società. Esistono poi problemi di consenso nel Paese, che di suo è molto atomizzato e spezzettato in categorie e interessi divergenti, molto poco incline a riconoscere il collante comune dell’interesse generale e fortemente sfiduciato circa la reale possibilità del cambiamento. Il tema di come costruire consenso intorno alle riforme è del resto cruciale in ogni Paese d’Europa. Alcuni anni fa il primo ministro lussemburghese, alla fine di un vertice europeo, ebbe a dire: «Tutti noi che siamo al governo nei Paesi europei sappiamo che cosa andrebbe fatto per far ripartire l’Europa; ciò che non sappiamo è come vincere le elezioni dopo averlo fatto». La più efficace dichiarazione di impotenza riformistica della classe politica continentale. Ma questo assioma non è più necessariamente vero nell’Europa di oggi. Innanzitutto perché almeno due primi ministri hanno rivinto le elezioni dopo aver avviato un programma di riforme radicali: Tony Blair e José Maria Aznar. In secondo luogo perché nella vecchia Europa sembra diffondersi una nuova consapevolezza e disponibilità dell’opinione pubblica verso le riforme, anche grazie ai benefici di crescita economica che ne derivano. In particolare la Germania, fino a ieri il grande malato d’Europa, sembra finalmente rispondere positivamente alle riforme introdotte nel mercato del lavoro dall’ultimo governo Schröeder e a quelle che la Grande coalizione diretta dalla Merkel sta introducendo. La locomotiva tedesca si è rimessa in moto, con effetti benefici anche per altri Paesi europei, Italia in primo luogo, ed è noto che è molto più facile fare le riforme in una fase di crescita che in una fase di stagnazione. Questa può essere la grande fortuna del governo Prodi. Se saprà sfruttarla per delineare e attuare un’agenda di governo coerentemente e coraggiosamente riformista, e non per galleggiare, allora questa legislatura potrebbe non risultare persa, come le due precedenti, ai fini del rinnovamento di un Paese che ne ha un bisogno disperato, se vuole reggere la nuova competizione globale, trovare un nuovo posto nel nuovo mondo, diventare più ricco e più giusto e riprendere a produrre futuro per i suoi giovani.