Sulla base delle difficoltà della lunga transizione ci viene spesso riproposta l’immagine dell’Italia come l’unico Paese europeo in cui sarebbe impossibile sperimentare un’alternanza normale, non lacerante. Alla diagnosi segue la prognosi, per la quale sarebbe opportuno regredire a un sistema in cui le passioni dell’elettorato sono governate in modo freddo e oligarchico con coalizioni post-elettorali, ritornando a forme di delega, soprattutto a favore di partiti posti al centro dello scacchiere politico. E’ questa la radice culturale di proposte come l’adozione di quello che comunemente viene definito sistema tedesco.
Questa proposta culturale e politica, pur partendo da problemi reali, appare semplicistica, sia rispetto al dato degli altri Paesi – dove in alcuni momenti l’alternanza tende ad essere polarizzata e lo scontro non sembra affatto a bassa intensità, come nelle ricostruzioni idilliache che se ne fanno – sia rispetto al nostro interno, perché niente dimostra meglio come nel nostro Paese non ci siano due armate di elettori non comunicanti, quanto l’attenta analisi del voto nelle elezioni amministrative e regionali, dove il sistema è in grado di produrre un’effettiva capacità decisionale e dove quindi al termine del mandato la maggioranza può essere giudicata anche su programmi e non solo su posizionamenti aprioristici. Sono molti i sindaci, i presidenti di provincia e di regione che ottengono il nuovo mandato non solo col pieno dei consensi del proprio schieramento, ma anche con quelli di larga parte degli elettori di quello avversario.
Questo contesto è anche quello che ha alle spalle una diffusa pratica del principio di sussidiarietà, che ha rotto gli argini di una società strutturata solo secondo linee di frattura e di fedeltà politico-partitiche: le dimensioni del pluralismo appaiono oggi molto più ricche rispetto ai decenni della “Repubblica dei partiti” e ai suoi collateralismi. Nessuno degli elementi che tradizionalmente predicevano il voto può essere assunto oggi. Questa è una precondizione ma anche un elemento di positività del bipolarismo: proprio la possibilità di giudicare laicamente i governi di legislatura che si succedono può rafforzare ulteriormente una sussidiarietà non collaterale, attenta ai programmi e non alle fedeltà acritiche. I governi di legislatura sono il contesto istituzionale che meglio garantisce l’autonomia reciproca tra politica e società, perché spingono a giudicare non sulla base della riconferma delle appartenenze, ma su dati effettivi di lungo periodo. Anche per queste ragioni non è interesse del Paese ridiscutere il bipolarismo. Il fallimento del sistema politico pre-1994 dimostra che su quella strada non c’è risposta effettiva ai problemi del Paese. I governi di legislatura hanno in comune con la sussidiarietà il medesimo presupposto: il richiamo al principio di responsabilità.
Dobbiamo allora chiederci perché si sia verificato dal 1994 in poi, almeno sul piano nazionale, un andamento di tipo capovolto a quello tradizionale. In luogo di leadership moderate che canalizzavano elettorati ideologizzati, abbiamo avuto leadership radicalizzanti che cercavano di eccitare elettorati di per sé ben più moderati rispetto ai decenni precedenti. Non c’è forse una connessione tra la disseminazione di poteri di veto, l’impossibilità di perseguire realmente le parti essenziali del programma di governo e il gioco ad eccitare il proprio elettorato, mobilitandolo contro lo schieramento avversario, più facile soprattutto per coloro che si trovano all’opposizione? Come si spiegherebbe altrimenti che analoghi fenomeni non si ripetono ai livelli inferiori di governo, dove sono presenti le medesime forze politiche? Ciò si collega anche ad un’altra anomalia: mentre a livello locale e regionale la regola è la riconferma dell’amministrazione uscente, a livello nazionale dal 1994 in poi la regola è l’alternanza. Non perché gli elettori vi hanno preso gusto dopo decenni, ma perché l’elettorato della coalizione vincente è rapidamente disilluso dall’impossibilità di realizzare il cuore del programma, mentre quello della coalizione di opposizione è rapidamente rimobilitato. I poteri di veto, a cominciare dal bicameralismo paritario e dalla frammentazione delle coalizioni, sono implacabili tanto più quanto si allontana il momento delle elezioni. A ciò si aggiunga il fatto che sul piano nazionale essi non sono bilanciati dalle norme costrittive sulla forma di governo che ai livelli inferiori garantiscono invece la coesione per l’intero periodo.
La possibilità di una via d’uscita rispetto allo stallo tra veti opposti è rimessa all’iniziativa referendaria, l’unico elemento reale che è in grado di connettere le istanze di miglioramento del bipolarismo nel Paese con le spinte analoghe in Parlamento. Se il referendum non risolve per intero i problemi, è comunque innegabile che offre l’unica occasione per risolverli. I quesiti referendari, suggerendo il superamento delle attuali coalizioni litigiose attraverso la lista coalizionale e l’eliminazione dei micro-sbarramenti, in termini di riforma elettorale sono aperti a due strade: una è quella che porta all’omogeneizzazione integrale con le forme di governo comunale, provinciale e regionale. Una strada possibile ma che richiede interventi molto marcati sul testo costituzionale, dato che il punto di forza a quei livelli è la forma di governo, non la formula elettorale. L’altra strada, che preferisco, è quella della rinuncia al premio di maggioranza, ma non nella direzione del sistema tedesco, che si limita a fotografare tutte le forze che superano la soglia e quindi comporta in Italia coalizioni post-elettorali, quanto piuttosto in quella del sistema spagnolo, che non premia le coalizioni, ma i primi due partiti nazionali, sovrarappresentandoli in seggi, senza con questo comprimere il pluralismo. Su questa strada, quella di partiti a vocazione maggioritaria, in grado di dar vita intorno a sé a governi di legislatura, da giudicare sui risultati, il nostro bipolarismo potrebbe assumere finalmente caratteristiche “normali”.



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