Libertà economica e principi liberali

La libertà economica, come manifestazione inseparabile dall’idea generale di libertà individuale, ha sempre avuto e avrà nemici. Proprio perché la libertà, in generale, e la libertà economica, in particolare, incontrano minacce permanenti sul loro cammino, richiedono e meritano una loro permanente difesa.
Sono uno di quelli che ha sempre creduto e difeso l’economia di libero mercato. Non solamente, né principalmente, per una questione di efficacia, ma per una questione di principio.
C’è chi difende la libertà economica sulla base dei suoi risultati, affermando che essa produce buoni risultati in termini di crescita individuale e collettiva. Si sostiene ragionevolmente, con il supporto di dati empirici, che i Paesi in cui il diritto di proprietà e la libertà di impresa sono assicurati e il mercato è il sistema preferito di assegnazione delle risorse producono livelli maggiori di reddito pro capite, maggior speranza di vita, maggior crescita, minori livelli e tassi di povertà, maggiori livelli educativi, miglior accesso a beni e servizi di base e della salute.
Tutto ciò è vero. Basta considerare alcuni esempi, come le differenze tra la Germania occidentale e quella orientale negli oltre quarant’anni di storia della cortina di ferro, le enormi differenze tra Corea del Nord e del Sud o quelle tra l’Europa meridionale e il Nord Africa.
Alcune prestigiose istituzioni come la Heritage Foundation, in collaborazione con il Wall Street Journal e la Fondazione Faes, elaborano annualmente, per un ampio insieme di Paesi, indici di libertà economica, che rivelano in forma sistematica due realtà. La prima è che i Paesi con maggiori livelli di libertà economica sono anche i più avanzati. La seconda è che i Paesi che più progrediscono sul terreno della libertà economica sono anche quelli che più rapidamente avanzano in termini di reddito pro capite.
Il fatto è che libertà economica e crescita sono strettamente unite tra loro. Che la libertà economica sia il maggior nemico della povertà e della disuguaglianza è confermato in modo sistematico da autorevoli studiosi. I lavori dei Professori Bhagwati e Sala i Martín risultano chiarificatori e rivelano che la decisione, all’inizio degli anni Ottanta, di Cina, India e molti altri Paesi asiatici di scommettere sull’economia di mercato e il commercio internazionale si è tradotta negli ultimi venti anni in quattrocento milioni di persone che non vivono più sotto la soglia della povertà. Da quando hanno abbandonato il socialismo e abbracciato la libertà economica, questi Paesi hanno raccolto risultati formidabili in termini di riduzione dei livelli e dei tassi di povertà, della disuguaglianza e, anche, di incremento della speranza di vita, di accesso all’acqua potabile, all’educazione di base e ai servizi sanitari. In Africa, dove l’eredità o la persistenza di regimi totalitari comunisti e socialisti è pesante e si chiudono le porte al libero commercio e alla globalizzazione, non solo non si avanza, ma in molti Paesi si regredisce addirittura.
In Europa, i nuovi Stati membri dell’UE portano aria fresca in materia di libertà economica, con i risultati conseguenti: imposte basse, mercati flessibili, privatizzazioni e concorrenza sono moneta comune di questi Paesi, che sperimentano una convergenza accelerata con i Paesi più sviluppati. L’Estonia, per esempio, aveva nel 1991, appena crollato il muro di Berlino, un reddito pro capite pari al 7% della media europea. Questa fu l’eredità del socialismo. A seguito di una scommessa radicale per la libera impresa, il libero mercato, il libero commercio internazionale e le imposte basse, nel 2005 il reddito era già il 60% della media comunitaria. Ora questo Paese cresce a un tasso annuo del 12% e spera di raggiungere il 100% della media comunitaria in quindici anni.
Nonostante tutto questo, la linea di argomentazione a sostegno della libertà economica basata sui suoi risultati superiori in termini di crescita e di coesione sociale, sebbene sia ragionevole e necessaria, non è, secondo me, quella fondamentale.
Il diritto di proprietà, la libertà di impresa e i suoi corollari, la libertà di scelta del consumatore e il libero mercato, dal punto di vista dei valori, e lo Stato non interventista, le imposte basse e il commercio internazionale, dal punto di vista della politica economica, non devono essere sostenuti solamente, e nemmeno principalmente, perché producono risultati economici migliori, individuali e generali, rispetto alla proprietà collettiva, all’impresa pubblica, alla pianificazione, alle imposte elevate o al protezionismo commerciale, ma perché si tratta di diritti e libertà inerenti la persona e, quindi, non negoziabili. Se poi si traducono in maggior sviluppo, come accade in realtà, tanto meglio.
Il fatto è che non credo nel relativismo delle idee: per me esistono principi superiori, quelli in cui credo. E se la libertà è il principio essenziale, per il suo carattere poliedrico la libertà economica le è inerente. In altre parole, sostengo senza mezzi termini la libertà di impresa di fronte all’ingerenza dello Stato e anche la superiorità del mercato di fronte alla pianificazione.
Sostengo uno Stato che serva per garantire le libertà e i diritti individuali, che abbia le dimensioni minime necessarie per garantire questi diritti e libertà e per fornire alcuni servizi pubblici di base. Per questa stessa ragione, sostengo che le imposte devono essere al livello minimo necessario per finanziare questi servizi pubblici essenziali.
Credo che lo Stato debba pensarci sempre varie volte prima di interferire nelle decisioni delle persone o delle imprese o prima di intraprendere una nuova iniziativa pubblica.



Governare secondo i principi

Quando nel 1996 mi assunsi la responsabilità di presiedere il governo spagnolo presi l’impegno non solo di gestire l’amministrazione dello Stato, ma anche di plasmare la politica economica spagnola sui principi e sui valori liberali. Perché governare non è sinonimo di gestire. Governare consiste nell’applicare alle politiche i principi in cui uno crede e quelli che il suo programma elettorale sostiene.
Per questo, nel 1996, facemmo virare di centottanta gradi la politica economica spagnola. Non si trattò soltanto di migliorare, con una nuova politica basata su puri criteri pragmatici, la difficile situazione economica ereditata, ma si sostituì un modello e una politica economica sbagliata con un’altra differente. Questo, semplicemente, perché i nostri principi sono differenti da quelli su cui si fondava il modello e la politica economica socialista.
Nel 1996, in Spagna il tasso di disoccupazione era del 23%, quello giovanile del 50% e quello femminile del 35%. La Spagna aveva un deficit dei conti pubblici quasi pari al 7% del PIL. Gli interessi a lungo termine erano del 15%. Il debito pubblico cresceva in maniera esponenziale, avvicinandosi al 70% del PIL. La Spagna non soddisfaceva nessuno dei cinque criteri necessari per accedere all’euro. La spesa pubblica era al 45% del PIL. L’imposta sul reddito personale aveva un tasso marginale del 56%. Rispetto alla media comunitaria, il reddito pro capite era del 78%, la stessa percentuale che la Spagna aveva venti anni prima.
L’impresa pubblica era onnipresente e molti mercati chiave, come i servizi di telecomunicazione, l’energia e i trasporti, operavano in regime di monopolio pubblico.
Otto anni dopo, la Spagna era socio fondatore dell’euro, i tassi di interesse di lungo periodo si erano posizionati al 4%, si registrava un reddito pro capite pari al 99% della media comunitaria, erano stati creati cinque milioni di nuovi posti di lavoro, con un tasso di disoccupazione più che dimezzato, il debito pubblico si era ridotto al 20% del PIL, si erano eliminate o ridotte le imposte e si poteva scegliere tra diversi operatori in molti mercati privatizzati, liberalizzati e sottoposti a concorrenza.
Si potrebbe affermare che risultati economici così incontrovertibili giustificano da soli una politica economica liberale. Nonostante questo, considero più importante il fatto che questa politica ha risposto a una serie di principi di cui sono profondamente convinto. Esporrò di seguito alcuni esempi.



Spesa pubblica e libertà di scelta delle persone

Comincerò dalla spesa pubblica e dalle imposte. La mia attenzione viene richiamata ogni volta che sento la frase: «questo lo paghi lo Stato». Si tratta di un’espressione molto comune, ma se a chi la dice si chiede: «Perché devo pagarlo io questo?» ci si sentirà rispondere: «No, lei no, lo paga lo Stato!», come se lo Stato potesse spendere senza prelevare imposte dalla gente o, in loro mancanza, indebitarsi per il futuro. La domanda corretta è: «Quanto delle mie imposte mi costa questa politica?». Sembra differente, ma è la stessa cosa. Perché tutte le spese pubbliche si pagano con le imposte, con quelle che si pagano ora o con quelle che si pagheranno in futuro, attraverso il debito pubblico accumulato.
Per un altro verso, la spesa pubblica non permette la libera scelta del consumatore. Chi decide per il consumatore è il potere pubblico e per questo chi sostiene la libertà individuale sostiene anche la riduzione della spesa pubblica. Preferiamo che il cittadino scelga liberamente in cosa spendere il suo reddito, piuttosto che un terzo decida per lui questa spesa, pagandola con le sue imposte. È proprio dei politici socialisti pensare di saper meglio della persona stessa cosa le conviene. Decideranno per lei, per esempio, a quale scuola dovrà mandare i suoi figli o da quale medico potrà andare, incorrendo sistematicamente nella “presunzione fatale” a cui faceva riferimento Hayek.
Le spese si pagano integralmente con le imposte, che, sebbene inevitabili, sono per definizione una violazione della libertà individuale: lo Stato si appropria coattivamente di risorse che sono di proprietà delle persone. Per questo siamo in favore di basse imposte, che producono minori distorsioni e danno maggiori incentivi a impegnarsi, a risparmiare, ad assumere rischi, ma il punto fondamentale consiste nella difesa del diritto di proprietà. Riteniamo, quindi, che il settore pubblico debba spiegare, e molto bene, perché e per che cosa toglie queste risorse dal reddito delle persone.



Privatizzazioni, liberalizzazioni e concorrenza

Continuerò con l’esempio dei monopoli pubblici. L’esperienza ci dimostra che lo smantellamento dei monopoli pubblici e l’introduzione della concorrenza in questi mercati si traducono in prezzi più bassi e miglior qualità del servizio.
Ancora una volta, tutto ciò è positivo e importante, ma l’essenziale è che un monopolio, pubblico o privato che sia, limita la libertà di scelta dei consumatori. E poiché il consumatore ha diritto di scegliere, diritto che da il titolo a un’indimenticabile opera di Milton Friedman, è naturale che il politico che crede nella libertà individuale senta il dovere di introdurre concorrenza nei mercati. È così semplice.
Non si tratta, pertanto, semplicemente di una questione di efficienza o di efficacia. Conosciamo bene gli argomenti tecnici che possono essere utilizzati per sostenere la concatenazione privatizzazione-liberalizzazione-concorrenza. Ci hanno spiegato che le imprese pubbliche sono, generalmente, gestite peggio di quelle private e che le prime incorrono nella cosiddetta “inefficienza X”, a cui Liebenstein si riferiva. Ci hanno spiegato anche che il progresso tecnico e l’espansione del mercato rendono obsoleta la teoria classica dei rendimenti crescenti, che giustificava il “monopolio naturale” di carattere pubblico.
Il pericolo di dimenticare i principi e di limitarsi ai soli aspetti tecnici si traduce frequentemente in errori fondamentali, molto più gravi di quello che si può pensare. Uno di questi consiste nel “fermarsi a metà strada”, nel privatizzare senza introdurre libera concorrenza nel mercato. Si passa così da un monopolio pubblico a un monopolio o oligopolio privato.
I risultati di queste “riforme a metà” sono criticabili in termini di efficienza ed equità, perché i consumatori e i contribuenti non sono avvantaggiati come lo sarebbero se si introducesse una reale concorrenza. Tuttavia, oltre a questi, si produce un danno molto peggiore: la snaturalizzazione e la distorsione del concetto di libertà economica.
Gli esempi più chiarificatori si possono trovare nell’esperienza economica latinoamericana degli anni Novanta. La sostituzione dei monopoli pubblici con monopoli o oligopoli privati è risultata enormemente costosa per le idee liberali, proprio perché non si puntò sufficientemente sull’introduzione di politiche economiche liberali. Si ridusse la libertà economica, non per troppo mercato, ma esattamente per la sua assenza.
In Europa non mancano esempi dello stesso tipo, in cui monopoli pubblici sono stati sostituiti da monopoli o oligopoli privati. In altri casi, non si è neppure iniziato il processo. Risulta sorprendente verificare l’elevato numero di imprese pubbliche nazionali che sopravvivono in buona parte degli Stati membri della UE-15, molte delle quali come monopolisti o operatori dominanti. Ciò grazie alla limitata concorrenza e, quel che è ancora peggio, alle barriere erette da alcuni governi all’entrata di competitori stranieri, frequentemente con il sostegno dell’ormai obsoleta teoria dei campioni nazionali.
Niente di questo risulta possibile se la politica è basata sui principi. Quando si ha chiaro che la libertà di scelta del consumatore e la libertà di impresa sono principi fondamentali, necessariamente si arriva a un buon risultato, in questo caso l’introduzione della concorrenza nei mercati, alla quale si giunge solo attraverso le imprescindibili fasi di privatizzazione e liberalizzazione.
Per concludere, bisogna aver chiaro che, come spiega il Professor Gary Becker, i problemi economici si risolvono sempre con più, non con meno, libertà.



F.A. Von Hayek, La presunzione fatale. Gli errori del socialismo, Rusconi, Milano 1997.
M. Friedman, R. Friedman, Liberi di scegliere, Longanesi, Milano 1981.
H. Liebenstein, Allocative Efficency versus “X-efficency“, «The American Economic Review», n. 56, 1966.
Professore all’Università di Chicago e premio Nobel per l’economia.