«Ciò che sessant’anni fa ha permesso alla Costituzione di essere approvata all’unanimità, seppure fosse stata scritta da persone appartenenti a ideologie del tutto diverse, fu la consapevolezza di dover dare vita a regole che non invecchiassero con il tempo». Una consapevolezza che non si perse nemmeno a seguito della profonda frattura che colpì il paese successivamente, nel maggio del 1947, quella frattura che portò «all’estromissione dei comunisti dal governo, un’estromissione che non cambiò questo clima».
Così il senatore a vita Giulio Andreotti ripercorre le vicende che portarono all’approvazione della Costituzione nel 1947. Un anno importante per lui, l’anno che segnò il suo esordio come uomo di governo in qualità di sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel quarto governo De Gasperi, carica poi mantenuta fino al 1954.
Allora, probabilmente, i padri costituenti ebbero più a cuore – rispetto a quanto sovente non dimostrino di averne oggi i politici – quello che viene chiamato “bene comune” piuttosto che i propri interessi particolari. Una finalità che oggi sembra essersi persa. Anche se – spiega Andreotti – «dare un giudizio in merito è difficile». «Talvolta – dice ancora il senatore a vita – diamo troppa importanza alle apparenze; mentre ci sono bontà nascoste e cattiverie ben dissimulate».
Ripercorrere il cammino svolto sessant’anni fa non è impresa facile. Fu un percorso non esente da difficoltà e da ostacoli che sembravano poter bloccare del tutto la strada verso la Costituzione. Andreotti ravvisa il punto più ostico e la difficoltà più grande nel fatto che, allora, «dominava la “questione comunista”» la quale – dice – «era in realtà la “questione sovietica”». Si chiede Andreotti: «Quando sarebbe stata superata e come? Nessuno era in grado di dirlo». E la medesima cosa non la sapevano dire nemmeno le figure più significative tra quelle che presero parte ai lavori che portarono all’approvazione della carta costituzionale. «Molti personaggi – racconta Andreotti – spiccavano: Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Giovanni Francesco Malagodi e Guglielmo Giannini. Ognuno con caratteristiche diverse».
Nel dibattito odierno si sente parlare sempre più frequentemente della necessità di modificare la Costituzione. Difficile dire se sia un’istanza giustificata o una rivendicazione dettata dalla contingenza politica. Per Andreotti, una battuta spiega meglio di tante parole il suo personale punto di vista: «Vale sempre il paragone con i mobili antichi: chi vuole restaurarli si può trovare con un mucchio di polvere in mano».
Sessant’anni fa il termine federalismo era estraneo al vocabolario politico del nostro paese. Poi il termine è stato sempre più recepito. E la cosa, per taluni è legittima, per altri lo è meno. Spesso, infatti, gli eccessi che hanno caratterizzato il passaggio tra la prima e la cosiddetta seconda Repubblica, hanno fatto passare l’idea del federalismo come illegittima. «Il difetto pratico – dice Andreotti – si è avuto non decentrando le competenze alle regioni, come era previsto dovesse farsi».
Comunque, se si parla della possibilità di modificare – anche soltanto in parte – la Carta costituzionale, il giudizio di Andreotti è chiaro: «L’Italia – spiega – ha progredito con questa Costituzione, adattando anche decisioni straordinarie, come le intese europee. Meglio, dunque, non andare a toccare la Costituzione stessa».