Nel 2008 ricorrono i sessant’anni della Costituzione italiana. Quell’esperienza, definita da molti il “miracolo costituente”, fu l’esempio di un compresso in nome del bene comune. Per lei cosa è oggi il bene comune?
L’espressione “miracolo costituente” non è certamente esagerata: il lavoro comune dei partiti usciti dalla liberazione sopravvisse anche alla rottura del governo e al drammatico peggioramento delle relazioni internazionali in anni che annunciavano quelli tempestosi della “guerra fredda”. Allora i padri della Repubblica riuscirono a superare contrasti e differenze (che erano radicali) con la consapevolezza che bisognava far ripartire il paese e ricostruire lo Stato. La scelta democratica, la grande attenzione all’attribuzione dei poteri, la distinzione e la piena autonomia tra politica e giustizia si accompagnarono a straordinari elementi di valore che hanno resistito 60 anni. Guardando all’oggi ci troviamo in una situazione certo del tutto diversa ma siamo nuovamente ad un punto di svolta. Alcune delle scelte istituzionali di allora – motivate dalla preoccupazione per la lunga “notte” del fascismo – possono e anzi debbono essere superate. C’è una parola chiave che oggi può muoverci alla ricerca del bene comune per il Paese: questa parola è una democrazia che decide. Davanti alle novità e alla velocità dei mutamenti e delle risposte che ci vengono chieste dai problemi c’è bisogno del massimo di democrazia e del massimo di decisione. 
Il New York Times, recentemente, ha dato l’immagine di un’Italia in difficoltà. Cosa ne pensa?
Io credo che il nostro sia una paese dotato di straordinarie capacità e di possibilità di crescita. Ma al tempo stesso credo che non sia del tutto falsa o malevola l’immagine emersa dalle pagine del NYT, vedo anche io una difficoltà, una stanchezza che riguarda la sfera sociale e politica più che quella personale. Questa frattura va sanata, la domanda di buona politica deve trovare una risposta e la politica deve saper rispondere ai bisogni dei cittadini.
La ripresa del cammino delle riforme istituzionali e costituzionali potrebbe rilanciare l’Italia? Quali devono essere le priorità?
Mi chiedo chi avrebbe scommesso sulla ripresa del dialogo tra i poli e sulla possibilità di un accordo sulle riforme soltanto tre mesi fa. Ecco, io credo che con la nascita del Pd abbiamo aperto la strada a questa possibilità. Siamo all’ultimo miglio. Naturalmente sappiamo che è il più difficile, ma penso che la riforma sia oggi più vicina. E’ una riforma di transizione, che ci fa mettere alle spalle questa legge nata per rendere difficile, se non impossibile, la stabilità e la governabilità. E sono convinto che le riforme permetteranno di superare i mali più insidiosi. Penso alla frammentazione che oggi è estrema e rischia di essere paralizzante, a coalizioni coatte, nate per colpa della legge elettorale del centrodestra. Per questo ho parlato di una vocazione maggioritaria del Pd, una vocazione che era stata scambiata per un atto di superbia o per una messa in liquidazione dell’alleanza di centrosinistra. Non è né l’una né l’altra cosa, ma una ambizione legittima di un partito che si candida alla guida del paese e che vuol costruire le sue alleanze attorno ai proprio obiettivi programmatici e non con defatiganti trattative che rischiano di produrre qualcosa di fragile e incomprensibile.
La questione fiscale oggi rappresenta una delle questioni più problematiche. Da diversi punti di vista, ad esempio il rapporto tra Nord e Sud, il patto costituzionale sul fisco deve essere modernizzato. In che modo?
E’ certamente vero che il patto fiscale vada riscritto. Credo che il grande lavoro fatto in questo anno e mezzo dal governo contro l’evasione e l’elusione fiscale ci permetta di guardare le cose con un occhio un po’ diverso. Ora possiamo pensare di usare queste risorse per modificare e abbassare l’impatto della tassazione sui redditi, cominciando da quelli da lavoro dipendente. Perché è proprio qui che si è consumata una riduzione sostanziosa del potere d’acquisto. Insomma, possiamo pensare di andare attraverso le detrazioni ad aiutare i redditi più bassi. Ma possiamo anche pensare di agire per aiutare la produttività, ad esempio con una riduzione del carico fiscale su quella parte del salario che deriva dai contratti di secondo livello. Per essere più chiari, quella parte del salario contrattuale legato ad una crescita della produttività che diventerebbe – per effetto di una tassazione ridotta – più “pesante” nelle tasche dei lavoratori. E poi c’è il capitolo, tutto da scrivere, di un federalismo fiscale che sappia tenere insieme Nord e Sud ma assegni a ciascuno scelte e responsabilità nell’uso delle risorse pubbliche che arrivano dalla fiscalità.
Si possono fare riforme durature in Italia oggi (bipolarismo/bipartitismo) intervenendo solo sulla legge elettorale, senza riformare in profondità la Carta del ‘48? Secondo lei si tratta di arginare delle disfunzioni partitocratiche o, in modo più radicale, di invertire una rotta?
Io ho detto chiaramente che la riforma della legge elettorale va accompagnata da interventi seri sul terreno istituzionale e quello dei regolamenti parlamentari. L’obiettivo sul fronte delle innovazioni istituzionali è quello di superare il bicameralismo perfetto, trasformando il Senato in senso federalista e regionalista e riducendo complessivamente il numero dei parlamentari. Inoltre, dal punto di vista regolamentare, bisogna impedire che la frammentazione che con una nuova legge elettorale esce dalla porta rientri dalla finestra: e allora niente possibilità di presentarsi come una falso partito e di dividersi una volta arrivati in parlamento. Voglio però ricordare che queste riforme sono solo l’avvio di un più complessivo riordino del sistema politico italiano. In questo senso il Pd indica (come aveva già fatto l’Ulivo ormai da molti anni) una preferenza per il sistema istituzionale francese basato sul doppio turno e sul semipresidenzialismo. E questa non è una aspirazione vaga, ma una prospettiva che vogliamo costruire. 
La governabilità sembra oggi l’obiettivo primario. Una riforma della legge elettorale di per sé basta ad assicurarla? Riguardo alla legge elettorale, su quale soluzione secondo lei è possibile raggiungere un compromesso?
Ho già detto della necessità di non lasciare la riforma elettorale sola. La soluzione che oggi è a portata di un accordo è quella di un sistema elettorale proporzionale ma bipolare. Proporzionale perché permette meglio l’emergere delle forze politiche e le spinge ad aggregarsi attraverso i correttivi “di sproporzionali”. Il Pd era partito da una proposta innovativa, quello che sui giornali era stato definito Vassallum, che teneva insieme elementi dei modelli spagnolo e tedesco. L’accordo che può coinvolgere la stragrande maggioranza delle forze parlamentari, si muove verso gli stessi obiettivi. Io ho parlato di tre possibili meccanismi che, aggiunti ad uno sbarramento del 5 per cento, mirano alla bipolarizzazione: il voto unico, la ripartizione dei seggi per circoscrizioni di ridotte dimensioni e un piccolo premio al maggiore partito. E ho aggiunto che uno o più di questi meccanismi possono ottenere l’obiettivo di una innovazione soddisfacente. Vedremo, proprio in questi giorni, quale sarà la soluzione che il Parlamento saprà indicare.



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