Milano città egoista e leghista, chiusa nel suo particolare e soggetta a una cupola «come quella di Formigoni, Cl e Compagnia delle opere, che non esiste in alcuna altra parte del Paese, nemmeno la mafia a Palermo ha tanto potere». Questa la sintesi, su Repubblica di Milano ieri, della presentazione meneghina del libro “L’uomo che non credeva in Dio”, da parte dell’autore, Eugenio Scalfari. Sono parole e giudizi pesanti come pietre.
Poiché provengo da una cultura per molti versi del tutto coincidente con quella evocata da Scalfari, la cultura che nei decenni trascorsi considerava il meglio di Milano espresso dai cosiddetti “banchieri laici” come Raffaele Mattioli della Comit ed Enrico Cuccia in Mediobanca, sono particolarmente colpito dall’asprezza dei giudizi.
Non li condivido praticamente in nulla. E non si tratta affatto di animosità nei confronti di Scalfari, o verso il ruolo che esercitano ogni giorno nella vita nazionale il giornale di cui è stato fondatore e il gruppo editoriale al quale appartiene. La questione è un’altra, secondo me. Mi viene da dire che si tratta di giudizi che esprimono una sostanziale incapacità di vedere e capire di che cosa si stia parlando. E poiché ho molte difficoltà ad attribuire a Scalfari difetti di comprensione tanto gravi, posso solo pensare che su tutto prevalga un malinteso segno politico, e dico malinteso perché in definitiva pare a me che la condanna scalfariana – è sempre più così in lui, da parecchi anni a questa parte – poggi le sue basi su un anatema di carattere etico. Che però comprende e accomuna fenomeni tra loro totalmente diversi, per il solo fatto che essi rappresenterebbero gambe e braccia di un nemico comunque identitariamente come tale concepito, descritto e combattuto.
Dico “nemico” perché la ripulsa morale di tutto ciò che a Milano, in Lombardia e nel Nord si è espresso da ormai parecchi anni in maniera comunque distinta e distante dalle leadership e dalle politiche locali e nazionali sostenute dal centrosinistra, finisce per alimentare agli occhi dell’alfiere più intemerato di quel centrosinistra una sorta di continuum dell’abnorme e del difforme. Tanto che si tengono insieme come tratti comuni discendenti da un’unica matrice morale – il presunto inaridimento etico avvenuto nella “Milano da bere” craxiana – fenomeni che con quella matrice o c’entrano nulla perché precedenti e separati, o comunque solo successivi nel tempo ma non per questo teleologicamente collegati.
Quattro, sono i condannati a Milano da Scalfari. La buona borghesia milanese, sotto il capo d’imputazione di non esser più capace di solidarietà. I banchieri, dimentichi della tradizione laica. La Lega, naturalmente. Infine la presunta “cricca” formigoniana, Cl e Compagnia delle Opere, che dei tre condannati precedenti rappresenta per molti versi la sintesi di depravazione più seria, in quanto raffigurata come integralista, dedita al malaffare, oligarchica e irriducibile a ogni sana fisiologia della democrazia rappresentativa.
Vediamo di andare per ordine, allora.
Milano è oggi guidata proprio da un’esponente della migliore alta borghesia milanese. Se Letizia Moratti non è questo, non so chi lei sia. Lo è squisitamente tanto da aver proprio per questo problemi con la sua stessa maggioranza, e dal non esitare di condurre battaglie anche fortemente solitarie, vedi quella per la guida operativa dell’Expo 2015. Paradossalmente, la Moratti non esprime affatto un ripiegamento della borghesia milanese sui propri affari – tratto dominante di gran lunga nella storia della città, vista l’esiguità degli apporti “storici” dati dalle grandi famiglie milanesi alla politica locale e nazionale – ma l’esatto opposto. Se la sua colpa è quella di non riconoscersi nel centrosinistra, questo è un altro paio di maniche. È lo specchio fedele di quanto nelle urne del Nord avviene da anni: anzi dai ceti popolari e operai, prima che per i buoni borghesi milionari. Ed è un problema sul quale Repubblica e un centrosinistra serio dovrebbero riflettere in maniera critica e autocritica, non risolverlo in chiave di sentenze morali.
Non tocco se non en passant qui il terzo condannato, la Lega e i suoi consensi. Mi limito a dire che proprio la fedeltà alla cultura laica dei Silvio Spaventa e del suo “La giustizia nell’amministrazione”, o degli Ugo La Malfa e della sua “Caporetto economica”, dovrebbero indurre a riconoscere che la gran voglia di federalismo e di sussidiarietà non è affatto espressione di egoismo localistico. È la reazione a decenni di sprechi che non hanno sanato alcun divario geoeconomico in Italia, bensì alimentato deficit e malaffare vero. Nel rilancio del principio del beneficio al livello più prossimo a quello del contribuente c’è la riscoperta del liberalismo di Luigi Einaudi, non il razzismo del Ku Klux Klan.
Quanto al secondo imputato, i banchieri, proprio la cultura laica alla quale anch’io appartengo dovrebbe essere più autocritica. La Comit si rivoltò contro Cuccia che la voleva far sposare a Banca di Roma, in un’ottica nazionale di alleggerimento degli attivi patrimoniali della seconda, al servizio della crescita della prima che era la maggior banca internazionale che vantasse il nostro Paese. Alla fine, fu la Banca Intesa del professor Giovanni Bazoli a incorporare la Comit, e a girar pagina sui lunghi decenni della presunta contrapposizione tra “finanza laica” e “finanza cattolica”. In tutto il decennio successivo al grande consolidamento bancario italiano dopo la legge Amato, furono le fondazioni bancarie per lo più di matrice cattolica a dettarne tappe, tempi e sviluppi. Ci siamo abituati per anni a parlare e straparlare solo degli amministratori delegati, ma alla fine anche oggi sono le fondazioni che devono sottoscrivere gli aumenti di capitale. E lo fanno, a differenza di quanto capiti con altri soci in altre grandi banche mondiali che vanno a gambe all’aria.
Forse è il mondo laico che per tanto tempo si è cullato nella superiorità del ruolo sistemico esercitato da Cuccia, salvando i capitalisti italiani dai loro stessi errori e ponendo uno scudo tra le loro imprese e le eccessive pretese della politica in quegli anni, a non aver più saputo dipanare matasse e sfide di un tempo che diveniva obbligatoriamente diverso. Oggi, quei vecchi criteri – laico e cattolico – non dicono più nulla delle dinamiche e dei problemi con i quali devono confrontarsi banche come Unicredit e Intesa, la Popolare di Milano o altre Popolari. E, con tutto il rispetto, la battuta scalfariana su “Geronzi esportato a Milano” o non fa ridere o è mal detta. Se un banchiere sa comprare al ribasso e vendere al picco, Geronzi lo ha saputo fare nella sua vita meglio di più giovani banchieri che oggi devono fare mea culpa. Oppure, vuol dire che Scalfari pensa che il male – nelle banche come nel potere – stava a Roma e non a Milano, e allora è come se si dichiarasse d’accordo coi pretesi milanesi che di Roma non ne vogliono sapere.
Quanto a Formigoni, Cl e la Compagna delle Opere, conosco troppo bene dall’interno le impronte digitali del vecchio anticlericalismo per non riconoscerle. Don Giussani e la sua lezione sulla centralità dell’uomo e la libertà come fondamento del credere restano totalmente misconosciuti da chi crede di ridicolizzare i Memores Domini e i loro voti come se fossero una setta di tarantolati. Craxi e Lega, egoismo sociale e poteri mafiosi, con ciò che davvero sono Cl e la Compagnia delle Opere c’entrano assolutamente nulla. Se uno si sforza di conoscerli per davvero, naturalmente, con l’atteggiamento che ogni giornalista – non voglio parlare dei fondamenti dell’essere uomo – dovrebbe sempre serbare per le cose del mondo. La Compagnia delle Opere, per dirne una, offre a migliaia di imprenditori suoi iscritti la formazione della loro manodopera. Confindustria se lo sogna, in cambio della sue pur pingui quote associative.
Questa caricatura di una cupola mafiosa non va vissuta come un insulto, dunque. È il segno di una debacle culturale che disconosce se stessa. Incapace di capire e modificare il mondo in maniere a sé più congeniali, lo scomunica e lo danna. Sono gli stessi che dicono sempre di difendere il Galilei dal Bellarmino, ma la Congregazione per la dottrina della fede oggi non lo assumerebbe, Scalfari. Per lui ci vuole proprio il vecchio Sant’Uffizio, che benignamente affidava al braccio secolare il male da bruciare.