Il presidente della Banca Popolare di Milano commenta l’intervista di Scalfari apparsa ieri su Repubblica. «Chi ha distrutto l’etica della città – dice Mazzotta – è quella schiera numerosissima di persone che hanno attaccato i valori sociali diffusi e le basi umanistiche della nostra tradizione culturale. Stimo Scalfari, ma la sua diagnosi è sbagliata»
Presidente Mazzotta, Eugenio Scalfari, a Repubblica ed. Milano di ieri ha detto che la borghesia milanese, quella che ha fatto grande la città, ha abdicato al proprio ruolo culturale e civile. E ha attaccato il “sistema di potere” di Cl, Formigoni e Compagnia delle Opere, dicendo che nemmeno la mafia a Palermo ha tanto potere. Che ne pensa?
Premetto la mia personale ammirazione per Scalfari che ha alle spalle una vita straordinaria di grande giornalista e combattente per la democrazia, ma occorre dire purtroppo che invecchiando si diventa bisbetici. La stima che ho per lui mi permette di dire che la sua diagnosi è totalmente sbagliata perché il tutto viene buttato in politica utilizzandola come strumento di “percussione” verso una maggioranza o un ceto politico che ha molti difetti, ma certamente non merita di essere paragonato alla delinquenza organizzata. È una diagnosi che non ci aiuta.
E sul declino storico e l’involuzione della classe dirigente della città? La sua borghesia illuminata, negli ultimi decenni, avrebbe ripiegato su una difesa “ secessionista” ed egoista delle proprie posizioni, perdendo di fatto la sua identità.
Anche la mia generazione ha nostalgia per la Milano industriale degli anni ‘60, formata da imprenditori che erano leader nel mondo. Quella Milano aveva un ceto politico trainante e un’amministrazione pubblica per la quale era un orgoglio poter fare il funzionario. E una vita sociale e civile ricchissima. Qual è il problema della città oggi? La Milano industriale non c’è più: non per colpa di Milano, ma perché la distribuzione internazionale del lavoro è stata rivoluzionata e Milano stenta a diventare una città post-industriale con lo stesso livello di apertura internazionale e di guida che ebbe la Milano industriale. Questi, secondo me, devono rimanere il suo obiettivo e la sua sfida.
Di che cosa ha bisogno Milano oggi?
Cosa occorre? Dal punto di vista materiale, un sistema infrastrutturale che permetta facilità di scambi. Ma se guardiamo ferrovie, aeroporti e strade capiamo che le prospettive non sono incoraggianti. In secondo luogo, Milano deve puntare tutte le sue risorse sulla cultura teorica e applicata, su università e ricerca. È una delle concentrazioni dell’intelligenza organizzata potenzialmente più forti d’Europa e forse del mondo. Deve capire che le sue risorse più importanti devono essere investite nell’intelligenza e non disperse. Ma non è tutto.
A che cosa si riferisce?
È impensabile costruire un sentiero di crescita forte e di sviluppo della democrazia senza basi etiche solide e senza cultura sociale diffusa. Ma quelli che la contestano sono nella schiera di quelli che hanno concorso a distruggerla.
Parla della crisi denunciata da Scalfari?
Oggi il richiamo all’etica è diventato uno strumento reazionario perché è soltanto un richiamo al perbenismo. Invece chi ha distrutto l’etica è quella schiera numerosissima di persone che hanno attaccato i valori sociali diffusi e le basi umanistiche della nostra tradizione culturale.
Qual è secondo lei il momento storico in cui va cercata la perdita di identità dello spirito sociale e civile che ha contraddistinto Milano? È stata la svolta del ’68, il conflitto tra vecchie e nuove generazioni?
È stato anche questo, ma non dobbiamo farne un’interpretazione parziale. Non dimentichiamo che finita l’epoca del trionfo industriale milanese degli anni ’60, Milano ha conosciuto gli Anni di piombo, i sindacati d’assalto, il terrorismo, e gli attacchi alle istituzioni da parte dei partiti, delle formazioni sociali organizzate, dei sindacati e della magistratura. Non si può pensare che la città non sia stata violentemente traumatizzata e colpita nella sua capacità di sviluppo e di cambiamento. Ecco chi sono i cattivi maestri che hanno distrutto la forza sociale della città. Ma la si può ricostruire se si capisce bene chi l’ha distrutta.
Conclusione?
Allora, tutti coloro che hanno retto questo gioco, lo hanno blandito e presentato come vendetta della società contro le perfidie della reazione, dovrebbero tacere e capire quanto sono gravi le loro responsabilità. È grazie al loro silenzio che noi possiamo sperare in una svolta. Va aperto un dibattito, perché si può cominciare a capire cos’è la Milano del Duemila quando si capisce cos’è successo negli anni ‘70 e ‘90. Allora si farebbe un’analisi seria e onesta.
Da dove ricominciare?
Bisogna ripartire dai valori sociali diffusi della nostra tradizione e dalle “fabbriche di formazione”. Che sono libere e non statali. Parlo della scuola, della famiglia, delle università e delle organizzazioni politiche e sociali. Esse sono autentiche fabbriche di pensiero e di senso comune, la vera ricchezza diffusa di una società libera, che non ha bisogno né di salotti né di “comuni” cinesi, manifestazioni tipiche di una società povera, aristocratica e avvelenata.