Ostellino, solo pochi mesi fa, dopo il risultato elettorale, si parlava di terza Repubblica: un bipartitismo maturo, la fine della delegittimazione dell’avversario, l’ipotesi del dialogo e delle intese per le riforme. Ora è ritornato lo scontro: è adesso che stiamo tornando indietro, oppure era qualche mese fa che non era successo nulla?
Come spesso accade in Italia, si era giocato sulle parole. La parola “dialogo”, innanzitutto, io la abolirei dai giornali e dal lessico politico: l’opposizione fa la sua parte e il governo fa la sua. Se poi l’opposizione si trova d’accordo su alcune cose che ha fatto il governo, le approva in sede parlamentare, e tutto finisce lì. L’idea del dialogo, dell’apertura, perfino della concertazione nella definizione di certe decisioni legislative è il modo sbagliato, direi un po’ gesuitico, di concepire la democrazia. Era sbagliato allora parlare di dialogo, ed è sbagliato adesso dire che si è tornati indietro. Semplicemente, se noi avessimo un’idea chiara della democrazia sapremmo che il governo fa la sua parte e l’opposizione fa la sua; dopodichè in sede parlamentare nessuno esclude che alcuni o anche tutti i parlamentari dell’opposizione convergano su certe decisioni prese dal governo.
È vero che, come dice Veltroni, c’è un problema per il sistema democratico, dato dal fatto che il parlamento è esautorato delle sue funzioni, e tutto si accentra nelle mani del governo e, in particolare, del premier?
Se Veltroni, invece che limitarsi a scrivere dei romanzetti, avesse letto Benjamin Constant avrebbe scoperto che già nell’800 si era rilevato che l’errore dei rivoluzionari del 1789 era stato quello di conferire troppi poteri ai “rappresentanti”, in modo tale che i “rappresentati” finivano con l’essere assai poco rappresentati dagli eletti. Questa è una constatazione che vale per tutte le democrazie del mondo: i parlamentari eletti hanno un potere eccessivo nei confronti dei rappresentati, tale da svuotare in qualche modo la democrazia rappresentativa. Se Veltroni avesse letto Costant, saprebbe che è un difetto delle democrazie di tutto il mondo.
L’Italia si inserisce semplicemente in questo schema, o ha qualche difetto in più?
Che nella nostra democrazia questo difetto sia accentuato non c’è alcun dubbio. Ma non è accentuato dal fatto che Berlusconi sia diventato una sorta di Putin nostrano, bensì da una causa molto più profonda: il nostro sistema politico ha ereditato il corporativismo dal fascismo e il collettivismo dal comunismo, creando un ibrido fra queste due cose. È questo che da noi ha svuotato ulteriormente la democrazia rappresentativa.
Eppure da più parti si continua a dire che la presenza di Berlusconi, con il suo accentramento di potere, sia una caratteristica che fa dell’Italia un unicum: che ne pensa?
Se su Berlusconi si può dire qualcosa è che dentro a questa logica per metà corporativa e per metà collettivista, egli agisce come un monopolista; non come un dittatore, ma come un signore che ha monopolizzato una parte del parlamento, quella della sua parte politica, per attuare i suoi progetti. Ma questo è ancora conseguenza di ciò che Benjamin Costant aveva rilevato, non è una cosa che nasce adesso con Berlusconi. Il fatto poi che i partiti politici assomiglino più al partito comunista sovietico che a partiti di democrazia liberale, questo accadeva anche nella prima Repubblica. Lo dissi anche a un vecchio amico come Ugo La Malfa, che il Partito Repubblicano era un partito bolscevico, con la sola differenza che al posto di Lenin c’era La Malfa. I partiti non sono organizzati al loro interno, e operano tutti con l’impostazione del centralismo democratico leninista (anche se molti di loro non sanno nemmeno cosa sia).
Ritornando alle funzioni del parlamento, non c’è in effetti il rischio che in aula ci si limiti a ratificare ciò che il governo ha già deciso altrove?
Questa è certamente una forma di svuotamento o di esautoramento del parlamento. Però, dal momento che tutto ciò avviene sulla base di regolamenti che sono assolutamente legali e quindi legittimi, o si cambiano i sistemi attraverso i quali si formano le leggi nel nostro Paese, oppure, fin tanto che esistono questi regolamenti, non c’è nulla da eccepire sulla legalità o liceità sul modo con cui il governo fa approvare le leggi che ritiene opportune. Su questo l’opposizione deve essere sufficientemente matura e colta da affermare le proprie posizioni e di farsi promotrice di un cambiamento dei regolamenti che evitino esautoramenti da parte del governo. Ma questo, ed è un passaggio importantissimo, deve essere fatto quale che sia il colore del governo in carica: perché altrimenti l’accusa che attualmente l’opposizione muove contro il governo Berlusconi la si potrebbe benissimo ritorcere contro i precedenti governi di centrosinistra.
In questa nuova fase di scontro con il governo, l’opposizione, e in particolare il leader del Pd Veltroni, sta puntando molto sull’alleanza con i sindacati, in particolare con la Cgil:basta vedere quello che accade sul tema scuola. È giusto che ci sia questo rapporto tra politica e sindacato?
Veltroni segue la vecchia logica secondo cui il sindacato è cinghia di trasmissione del potere politico; è un precedente leninista anche questo, anche se Veltroni probabilmente non se ne rende nemmeno conto. La questione Alitalia, ad esempio, avrebbe potuto essere – e invece non lo è stata – la grande occasione, sia per la maggioranza che per l’opposizione, di ridiscutere e ridefinire i rapporti tra politica e sindacato. Tanto per cominciare, sono 60 anni che c’è nella Costituzione il riconoscimento dei sindacati, ma non sono mai state approvate le leggi di attuazione che ci dicano che cosa sono i sindacati, che cosa fanno e quali sono i limiti operativi della loro azione a tutela dei lavoratori. Ancora una volta dunque il difetto sta nel manico, ed è del tutto naturale, entro certi limiti, che Veltroni continui ad adoperare e a pensare all’interno di una logica leninista (visto che le origini culturali sue e del suo partito sono quelle; anche se sono profondamente cambiate, il riflesso condizionato lo si avverte ancora).Che manchino queste leggi di attuazione sui sindacati è una responsabilità dell’intera classe politica italiana, da sessant’anni a questa parte.
Con le recenti vicende, soprattutto il caso Alitalia cui lei ora accennava, il sindacato, o almeno un certo sindacato, si trova in una posizione più debole di fronte all’opinione pubblica?
Io non mi auguro che i sindacati si indeboliscano; mi auguro invece che facciano il loro mestiere, e cioè che quando si pongono di fronte a certi problemi non si chiedano in quale società vogliono vivere, ma si chiedano invece quali sono gli interessi dei lavoratori che essi rappresentano. Perché non è compito dei sindacati operare sul piano del mercato del lavoro e della contrattazione al fine di cambiare la natura della nostra società. Invece i sindacati sono sempre vissuti nell’illusione che in Italia ci potesse essere una sorta di cogestione tra sindacati stessi, mondo imprenditoriale e potere politico, sul modello jugoslavo ai tempi di Tito. La Jugoslavia non c’è più, quel modello di cogestione è finito: sarebbe ora che questo finisse anche in Italia. Che si capisse un volta per tutte che i sindacati hanno una precisa funzione, che è la tutela dei lavoratori, ma non hanno affatto la funzione di operare al fine di disegnare un loro tipo di società.