Il cambiamento del clima fa paura a tutti. Non si spiegherebbe altrimenti perché la convenzione dell’Onu sui cambiamenti climatici sia stata sottoscritta da 189 nazioni e lo stesso protocollo di Kyoto, che è un semplice strumento per conseguirne gli obiettivi, sia stato ratificato da ben 172 paesi. Tutti i principali leader mondiali, da Bush a Putin, da Sarkozy alla Merkel affermano che il clima è minacciato dall’uomo e ribadiscono in ogni occasione la volontà di agire. Quando però si deve decidere cosa fare le opinioni divergono.



Prima Europa e Stati Uniti si erano a lungo contrapposti sulle scelte di Kyoto; ora nasce la polemica tra l’Italia e il gruppo storico dei paesi dell’Unione Europea (Germania, Francia, Regno Unito). Se il clima che cambia fa paura, ne dovrebbe fare ancora di più vedere dividersi le potenziali vittime del suo cambiamento. I capponi di Renzo di manzoniana memoria sono evidentemente una costante storica della società umana (oltre che di quella animale).



Vediamo i diversi punti di vista. Pochi mesi fa gli organismi comunitari europei, per mitigare le cause del cambiamento climatico, lanciano la famosa strategia del 20-20-20. Tradotta in parole: diminuire entro il 2020 le emissioni dei gas serra del 20%, aumentare al 20% il contributo delle energie rinnovabili e migliorare l’efficienza energetica (in definitiva il risparmio) di un altro 20%. L’Italia, che prima non aveva detto nulla, ora dice: i costi sono troppo alti, specie in questo momento di crisi economica.

Intendiamoci: quando l’Europa dice che gli obiettivi del 20-20-20 sono perseguibili e i relativi costi (che pure non sono bazzecole) sono sostenibili, fa un discorso che ha un valore medio. Vuol dire che ci sono paesi che a questo traguardo sono vicini (perché si erano già mossi in questa direzione da tempo) e paesi che ne sono ancora lontani (perché hanno pensato ad altro). Di nuovo la società umana assomiglia a quella animale, cioè ci sono sia le formiche sia le cicale.



Purtroppo nel nostro paese la classe politica si è divisa su questa questione in due gruppi curiosi: chi il problema l’ha sempre o negato o ignorato, e chi l’ha sempre appoggiato, ma solo a parole (le parole, si sa, non hanno costi). I due schieramenti hanno dunque un robusto elemento comune: il non aver fatto proprio un bel niente. 

E adesso allora che si fa? È chiaro che più si aspetta, più pesanti saranno le pressioni dei fattori umani sul clima e più alti i costi finali per contrastarne gli impatti. D’altra parte nessuno nega che, quando c’è meno ricchezza, spendere denaro è arduo. L’unico modo per uscirne è studiare come e dove questi investimenti possano esser fatti. Perché, in ogni caso, si tratta non di spese a fondo perduto, ma proprio di investimenti il cui ritorno non è solo una sorta di assicurazione contro i danni provocabili dal clima mutato, ma anche un modo per avviare una serie di attività produttive che potrebbero aiutare proprio quello sviluppo economico che tutti auspichiamo. Avere speso un sacco di soldi nella ricerca spaziale (da molti ritenuta inutile anche in periodi di vacche grasse) ha permesso la nascita di alcune delle più fiorenti attività economiche, dall’informatica alla telefonia mobile, dalle telecomunicazioni satellitari ai materiali resistenti e ultraleggeri.

Investendo nelle nanotecnologie dei pannelli fotovoltaici o, per citare un esempio solo apparentemente opposto, nelle tecnologie “pesanti” di nuove centrali nucleari, non solo daremo un valido contributo al ridimensionamento delle cause antropiche del cambiamento climatico, ma anche potremo liberarci, una volta per tutte, da quella schiavitù dei combustibili fossili che, clima a parte, rovinano l’aria delle nostre città, ci legano a paesi fornitori ad alto rischio politico e hanno costi talmente volatili da minacciare in perpetuo la crescita delle nostre economie. Senza dimenticare che si tratta di risorse naturali preziose ed esauribili, su cui potrebbero vantare giustamente diritti anche le future generazioni.