La polemica tra Veltroni e Di Pietro impressiona per la contraddittorietà tra le parole che sfiorano gli insulti e la contemporanea riaffermazione di andare alleati alle prossime elezioni comunali e regionali. “Alleanza finita” annuncia Veltroni sia perché Di Pietro non è un alleato leale in quanto «ha stracciato l’impegno sottoscritto» per fare un gruppo unico, sia perché dà «risposte molto lontane dall’alfabeto della nostra cultura democratica». Però – aggiunge immediatamente dopo il leader del PD – «certo nelle alleanze locali probabilmente ci incontreremo». Come si fa a stare insieme per governare quando mancano le condizioni basilari di lealtà e di comune concezione della democrazia persino per stare insieme all’opposizione?
Perché decidere di andare da soli con “vocazione maggioritaria” senza nemmeno i socialisti filoprodiani e poi fare lista insieme con Di Pietro? Che l’Italia dei Valori non si sarebbe mai sciolta per confluire nel Partito Democratico era evidente sin dall’inizio così come non è una novità che Di Pietro non sia un campione di “garantismo”. Sono più dieci anni che l’ex PM fa politica ed il suo “valore aggiunto” consiste nel rappresentare a sinistra l’antiberlusconismo esistente in un elettorato di destra anche estrema. La vera novità è che facendo a gara nell’antiberlusconismo oggi Di Pietro sta penetrando anche nell’elettorato orfano della estrema sinistra non più presente in Parlamento tagliando la strada a Veltroni che pensava di ereditarlo automaticamente nel segno del “voto utile”.
L’incubo di Veltroni è rappresentato dal fatto che la sua sopravvivenza alla guida del Partito Democratico è legata all’esito delle elezioni europee che purtroppo sono sempre state per gli italiani l’occasione per l’esatto contrario del “voto utile”, incoraggiando liste stravaganti, ovvero la miglior platea per il “voto inutile”, un “voto in libera uscita”, un voto dimostrativo dato che appare sempre più come senza concrete conseguenze per la vita nazionale (e per la stessa vita europea in quanto ormai le decisioni rilevanti vengono assunte a livello di vertici del Consiglio d’Europa ignorando il Parlamento europeo la cui irrilevanza è clamorosamente emersa quando si è trattato di decidere le risposte da dare alla crisi finanziaria mondiale). Come può quindi Veltroni riuscire a “serrare le file”?
In politica, nell’emergenza, contano la coerenza e la chiarezza. Fatta la scelta della “vocazione maggioritaria” si doveva procedere conseguentemente come una “macchina da guerra” scaricando insieme a Bertinotti anche Di Pietro. L’errore iniziale di aver “salvato” Di Pietro (evidentemente “una proposta che non si poteva rifiutare”) rispecchia già una incertezza originaria nella strategia che ne offusca l’identità. Successivamente la “vocazione maggioritaria” avrebbe richiesto una “opposizione di governo” come era adombrata nella stessa scelta del “governo-ombra” senza l’Italia dei Valori. Una strada che a questo punto potrebbe essere ripresa, ma che può essere perseguita solo se ci si crede traendone lineari conseguenze ed incalzando quindi il governo sui contenuti e valorizzando il “governo ombra” monocolore.
Al contrario, prendendo una rincorsa addirittura da mesi nell’annunciare la manifestazione del 25 ottobre (che ha ibernato il governo-ombra), Veltroni ha riproposto la tabella di marcia tipica dello scadenzario comunista che ritualmente – dopo il festival dell’Unità di settembre – prevedeva a fine ottobre il grande corteo a Roma contro la finanziaria. Una tabella di marcia comune agli altri partiti dell’“Occidente capitalista” come i francesi che nelle stesse settimane anche a Parigi erano soliti protestare insieme al sindacato «contre le gouvernement et le patronat».
Il corteo del 25 ottobre si trova però in clamorosa difficoltà nel momento in cui la protesta contro la politica economica del governo vede le importanti misure presentate in questi giorni dal Ministro dell’Economia accolte in sostanza dall’intera comunità economica e finanziaria coinvolgendo aree dello stesso PD. Questa sostanziale difficoltà di Veltroni è il risultato di una cultura politica che pensa che quando si è all’opposizione il governo del paese passa nelle mani di entità demoniache – il Capitalismo, il Potere – la cui azione devastante è sempre, sin dagli anni trenta fino ai volantini estremisti degli anni settanta, una immortale Repubblica di Weimar degli spettacoli di Brecht e dei quadri di Grosz e cioè un ossessivo “dejà vu”: bassi salari, disoccupazione, sfruttamento della mano d’opera minorile, incidenti sul lavoro, crescita dei capitali stranieri e imperialisti (poi multinazionali), generale affamamento in basso ed orge in alto, ecc. ecc.
Un partito di sinistra a “vocazione maggioritaria” per essere credibile e popolare dovrebbe operare una chiara soluzione di continuità con la cultura comunista e cioè, per prima cosa, cessare di sentirsi “altra Italia”, di vedere “questo Paese” (come con una certa sufficienza Veltroni continua a chiamarlo per atteggiarsi a vedere le cose da più in alto con una appartenenza più internazional-internazionalista) come un paesaggio di “minus habens”: sfruttati ed indifesi contro invasori e sfruttatori.
Il deficit della cultura comunista ancora presente a sinistra consiste – come emerge dalla lettura dei manuali scolastici da essa partoriti – nel dipingere la storia d’Italia – dal dopoguerra ad oggi – come “paese mancato”, come una successione di illusioni e tradimenti (“illusioni riformistiche” e “restaurazioni capitalistiche” come recitano i nostri più diffusi manuali di storia), un panorama angosciato e frustrato in cui le leggi più importanti in senso positivo sono state solo il divorzio e l’aborto e quindi di “questo Paese” sarebbero solo da ricordare proteste, lotte, manifestazioni, inchieste – giudiziarie o giornalistiche – romanzi, canzoni e film.
In “questo Paese (mancato)” la sinistra che è l’”altra Italia” – un’Italia virtuale come ideali e possibilità – deve sistematicamente guerreggiare contro “questa Italia”, un’Italia di sfruttatori e mistificatori, in cui la sinistra che rappresenta il Vero, il Buono, il Bello, il Giusto è sconfitta a causa di corruzioni, violenze, complotti, brogli, manipolazioni.
La “vocazione maggioritaria” viene meno quando si attribuisce la propria sconfitta elettorale al potere delle televisioni e si va, come Veltroni, in televisione a farsi intervistare in modo servizievole per tuonare contro il servilismo televisivo.
La mancata “resa dei conti” con il comunismo si è tradotta per la sinistra italiana in una mancata “resa dei conti” con la realtà italiana, con l’incapacità di “leggerla” non come una successione di cose nefaste, ma di rendersi conto che l’Italia, tanto per cominciare, si è ripresa nel dopoguerra e ha operato un “miracolo” non perché era parassitariamente al seguito del carro del capitalismo americano. Finché la sinistra non si rende conto che l’Italia che vale non è solo un conglomerato di intellettuali ed emarginati, ma è stata anche l’Italia del risparmio piccolo-borghese, della iniziativa della piccola e media imprenditoria, della creatività di personalità come Vittorio Valletta, Enrico Mattei, Oscar Sinigaglia, Adriano Olivetti, Angelo Rizzoli e insisterà nel vantarsi come “altra Italia” essa rimarrà a “vocazione minoritaria”.
Certamente nella polemica con Di Pietro, Walter Veltroni è animato dalla preoccupazione di stabilire che il corteo del 25 ottobre è tutto “suo” ed anche dal proposito di sbarazzarsi della candidatura di Orlando alla presidenza della commissione Rai per un proprio fedelissimo, ma in sostanza la scelta che ha di fronte è sempre la stessa: una cosa è la “vocazione maggioritaria”, altra il “raccattacicche” di un antiberlusconismo viscerale e trasversale mettendo insieme neofascisti e “leoncavallini”.