Le occupazioni studentesche possono essere affrontate e smantellate come i rifiuti di Napoli? Per rispondere bisogna cominciare con la domanda dal punto di vista opposto: siamo di fronte a un nuovo ’68? All’epoca si diceva che i contestatori erano la “nuova Resistenza”. Il ’68 aveva comunque alle spalle una protesta studentesca che in Italia era cresciuta dal 1965 sull’onda della contestazione al Piano Gui (dal nome del ministro democristiano che oggi leaders dell’occupazione della Statale di Milano come Luigi Covatta ricordano con autocritica nostalgia e rispetto). Aveva inoltre – e soprattutto – alle spalle un sistema organizzativo e ideale imperniato su una rete di “cinghie di trasmissione” che facevano capo a un “movimento comunista internazionale” che tra antimperialismo sovietico, rivoluzionarismo mao-castrista e “via italiana al comunismo” garantiva rifornimenti e copertura aerea. Era l’epoca in cui si viveva con il “complesso di colpa” di aver fatto dell’Italia nel ’48 una democrazia occidentale con un’economia di mercato: servi degli stranieri e sfruttatori degli italiani.
Oggi è vero che viviamo una scena di grande drammatizzazione: sezioni dell’Associazione nazionale partigiani lanciano appelli alla solidarietà verso la protesta studentesca in nome dell’antifascismo, il capogruppo del Pd alla Camera, Soro, bolla Berlusconi come appunto una sorta di generale Francisco Franco chiamandolo “caudillo”, mentre al suo fianco i giovani neofascisti di Forza Nuova con la loro formazione Lotta studentesca lanciano appelli a favore delle occupazioni.
A confermare il carattere però tipicamente “all’italiana” di questa vicenda vengono i “docenti e ricercatori” della Facoltà di Ingegneria de La Sapienza di Roma che nell’aderire all’occupazione si affrettano a specificare che non verrà sospesa l’attività didattica, ma che anzi sarà «potenziata». E cioè – per chi non l’avesse capito – protestano contro il governo a spese del governo nel senso che essi non sospendendo l’attività didattica non rinunciano ad una sola ora di retribuzione e a fine mese hanno così (come da comunicato di adesione all’occupazione) l’intero stipendio.
E qui veniamo alla principale differenza con il ’68.
La “miccia” non è un fatto comunque strutturale: l’università di “élite” che diventa di massa e da serbatoio della classe dirigente diventa bacino di formazione del mercato del lavoro. Oggi la protesta ha come innesto la reazione degli insegnanti per il “maestro unico”. Da qui discende una raffazzonata estensione dell’origine corporativa a obiettivi più generici e generali di difesa della “scuola pubblica” e dell’antifascismo.
Il fatto che Berlusconi tratti le occupazioni come i rifiuti di Napoli ha alle spalle un diffuso malcontento di fronte al vedere su You tube insegnanti discinti e drogati in aula. Non tanto nei ceti agiati, ma soprattutto nelle famiglie che fanno sacrifici per le spese scolastiche sono presenti malcontento, preoccupazione e rabbia per il pericolo di forme di dequalificazione dell’insegnamento, di fronte al pericolo che i propri figli rimangano socialmente “ingabbiati” e che scuola e università non siano più una possibile “via d’uscita” ed una “scala” per opportunità di promozione. Il gruppo dirigente della sinistra ufficiale – tutta intellettuali, agiati e “sfigati” – non si rende conto che il riconoscimento del “merito” non è un fatto “di destra”, ma è ritenuto dai ceti meno abbienti il principale “grimaldello” per un miglior futuro dei propri figli.
In questa situazione le occupazioni non hanno alcun “retroterra” di solidarietà ideale e di consenso sociale: appaiono una ricerca di drammatizzazione a freddo verso una Gelmini che presenta – finalmente – provvedimenti di elementare buon senso.
Molto importante è in questa situazione il ruolo assunto da Giorgio Napolitano. Anche chi non è un apologeta del suo passato (non solo di dirigente comunista, ma anche di presidente della Camera nel ’92-’94) deve riconoscere che il Quirinale sta svolgendo in tutti i campi un ruolo che rispecchia e incoraggia una volontà di “tenuta” nazionale, di concreto senso di responsabilità. La sinistra anziché alzare i toni e cavalcare l’animosità, gli scontri e la delegittimazione evocando i fantasmi di Francisco Franco e di Benito Mussolini ha oggi la possibilità di una via maestra per uscire dalle proprie difficoltà e cioè quella di inserirsi nel solco aperto e offerto dal Quirinale per rivendicare un ruolo determinante, appunto nella “tenuta” nazionale, di fronte ad un periodo non breve di difficoltà. Ma il “richiamo della foresta” alla mitologia di un’eterna Repubblica di Weimar sembra prevalere per evitare ogni crisi di identità.
D’altra parte le occupazioni non sono “rifiuti”. Gli studenti non sono sacchi di immondizia anche se vanno provocatoriamente alla ricerca dell’”incidente”.
E’ sicuramente giusto non rimanere immobili con “sensi di colpa” di fronte a “giovani” che rappresentano solo il “vecchio”, ad una mobilitazione essenzialmente conservatrice e che – a differenza del ’68 – è tutta imperniata sulla difesa dello “status quo” e a rimorchio del proprio corpo docente e più precisamente di quanti di esso vivono il proprio ruolo solo in una dimensione burocratico-parassitaria.
Oggi la risposta non è il chiamare gli studenti (come esorta qualche ex comunista che si crede moderato avendo come modello il Luigi Longo che alla vigilia delle elezioni del maggio 1968 si incontrava con i leaders estremisti per rivendicare il primato del Pci nella lotta armata antifascista, antimperialista, anticapitalista).
La vera risposta che ha in mano questo governo è l’esatto opposto: non perdere tempo, il voto democratico, l’iter parlamentare. Mentre nel ’68 (e in tutta la cosiddetta “Prima Repubblica”) ogni legge per essere approvata aveva di fronte un “percorso di guerra” che durava anche anni, oggi governo e maggioranza sono in condizione di sgomberare le università senza manganelli, ma con piena legittimità e maggior efficacia attraverso il voto parlamentare. La miglior via d’uscita è il più rapido voto parlamentare che chiuda irreversibilmente la materia del contendere e trasformi la protesta in un inutile monologo al buio. Il ’68 aveva di fronte Stato e governi “colabrodo” con ministri e leader di partiti di governo che attaccavano il governo e solidarizzavano con le violenze studentesche lasciando marcire le proposte di legge. Oggi la situazione è diversa. «Abbaiano? – diceva il Don Chisciotte di Cervantes – Significa che cavalchiamo».