Secondo Ermete Realacci, deputato del Pd, «a Bruxelles ci siamo mostrati impreparati. Poiché dal 1990 abbiamo aumentato di molto le nostre emissioni, l’obiettivo del 2020 è nettamente superiore alle nostre possibilità. Ma siamo perennemente sulla difensiva e in ritardo, dal punto di vista culturale e politico-strategico. Anche sul nucleare di terza generazione. Manca una cultura. A me dispiace perché queste sono sfide del sistema paese e non di una parte politica. Nel centrodestra abbonda gente che dà a questi argomenti un’importanza totalmente marginale. Ma dalla mia parte è lo stesso: se io dovessi scegliere tra Cameron e i tre quarti dei leader del Pd, su questi temi Cameron è meglio». Il sussidiario.net lo ha intervistato.



On. Realacci, qual è la sua opinione sulla vicenda del no dell’Italia agli obiettivi di politica energetica lanciati dal Consiglio europeo dell’ambiente?

La posizione dell’Italia, a mio avviso, è stata imbarazzante. Ci siamo mostrati impreparati. Un esempio? Il ministro Brunetta, in un articolo sul Riformista di qualche giorno fa, ha citato le misure dell’Ue e la decisione di ridurre il CO2 del 6,5% entro il 2020 a partire dal 1990…. Vede? La decisione dell’Ue ha come termine il 2020 ma partendo dal 2005 e non dal 1990 e questo impone una valutazione completamente diversa di quel provvedimento. Il ’90 è il punto di riferimento per Kyoto, che scade nel 2012. Il vero problema dell’Italia è che invece di ridurre le emissioni di CO2 del 6,5% le ha aumentate del 10%: in quattro anni dovremmo ridurle di oltre il 15% ma questo è chiaramente impossibile.



Altri paesi europei, ha detto il governo, sono d’accordo con noi: gli obiettivi fissati sono irrealistici e l’operazione costa troppo.

Ma l’alleanza che Berlusconi ha sbandierato con i paesi dell’Est non ha senso: i punti di contatto del nostro sistema produttivo con paesi come Estonia, Lituania, Bulgaria, Romania sono un po’ meno di quelli che ci sono con la Germania. E sarebbe oltretutto una “alleanza” controproducente per l’Italia, perché quei paesi chiedono che il calcolo parta non dal 2005 ma dal 1990 e perché? Perché dopo il ’90 hanno avuto, come tutto l’Est europeo, Russia compresa, un tracollo produttivo drammatico. La Russia ha potuto firmare a suo tempo il protocollo di Kyoto anche perché aveva ridotto così drasticamente le produzione che addirittura aveva crediti da vendere in termini di emissioni di CO2.



Abbiamo fatto scelte sbagliate, assumendoci impegni insostenibili?

Poiché dal 1990 abbiamo aumentato di molto le nostre emissioni, l’obiettivo del 2020 è nettamente superiore alle nostre possibilità. Se, non sia mai, la Ue decidesse di dar ragione ai paesi dell’Est per noi sarebbe un autentico massacro. La verità è che da Bruxelles siamo usciti indeboliti nelle nostra capacità contrattuali. Ma il punto cruciale è lo spirito con cui affrontiamo questa partita da molto tempo.

Qual è la sua obiezione?

Siamo perennemente sulla difensiva e in ritardo, dal punto di vista culturale e politico-strategico. Gli altri grandi paesi europei invece sono in prima linea. Ma anche gli Usa, se fosse McCain a vincere, non avrebbero più la posizione di Bush sui cambiamenti climatici. Perché sanno che chi arriva prima in qualche maniera batte gli altri. Prendiamo le rinnovabili: noi continuiamo a comprare apparecchiature e brevetti dall’estero per il solare e per l’eolico, perché altri paesi sono arrivati prima di noi, ma il discorso vale anche per tutte le tecnologie del risparmio energetico e dell’uso efficiente.

Cosa risponde a chi dice che le rinnovabili dal punto di vista economico non stanno in piedi, cioè hanno bisogno di sussidi pubblici e hanno costi altissimi?

È vero che le rinnovabili hanno bisogno di forti sovvenzioni pubbliche, ma i paesi che hanno fortemente investito in rinnovabili hanno sviluppato un’industria che ha centinaia di migliaia di occupati e oggi esportano tecnologia. Se noi avessimo investito le decine di miliardi di euro presi dalle bollette degli italiani negli anni passati per trattare le fonti assimilate alle rinnovabili – ma che erano solo residui di raffinazione e simili – e le avessimo investite nelle vere rinnovabili, saremmo un paese leader mondiale…

Bisogna allora battere la strada dell’efficienza energetica.

Questo è senz’altro il settore nell’immediato più promettente, in cui gli investimenti si ripagano nel giro di pochi anni. Poi c’è da dire che abbiamo le case peggio costruite dell’Europa più avanzata. Se coibentassimo meglio le nostre abitazioni, e utilizzassimo apparecchiature a miglior consumo – e siamo leader in Europa sia negli elettrodomestici bianchi sia nell’illuminotecnica – ogni famiglia risparmierebbe ogni anno mille euro. C’è un terreno di azione in positivo che in passato non è stato esplorato e che ci ha richiesto gravi costi. È un lusso che non ci possiamo più permettere.

Franco Prodi in un’intervista al Corriere ha detto che il vero problema a monte è il Protocollo di Kyoto, che andrebbe riscritto perché «è un gioco non condiviso».

Prodi fece un’audizione nella scorsa legislatura che produsse un documento poi approvato a larga maggioranza dalla Camera sulla questione dei mutamenti climatici, e la sua tesi è nota: ne sappiamo ancora poco, date soldi a noi ricercatori per studiare e noi decideremo il da farsi. Ma c’è una fiaba cinese nella quale un cacciatore passa la vita nel suo castello a studiare come si uccidono i draghi, poi quando è pronto ed esce per ucciderli i draghi si sono estinti.

Resta il fatto che i grandi emettitori come Cina, Stati Uniti e India ne rimangono fuori e il contributo dell’Europa alla riduzione delle emissioni non è sufficiente a determinare risultati apprezzabili.

Vero. L’obiettivo veramente difficile per l’Italia è il 2012, cioè Kyoto, e non il 2020, ma ci si concentra su quest’ultimo perché in questo caso la Ue si dota di una regolamentazione che coinvolge anche le imprese, mentre per il mancato rispetto di Kyoto le penali le pagherà lo Stato italiano.

Il settore auto è in rivolta conto il provvedimento sulle emissioni: costoso e penalizzante.

La Fiat ha ragione: abbiamo trattato male. Noi, innanzitutto! L’accordo raggiunto a livello europeo sulla riduzione del CO2 delle auto è stato “spalmato” sulle autovetture con un grosso favore alle auto di grossa cilindrata, che sono quelle tedesche, a scapito di quelle più leggere – che consumano anche meno – e che sono quelle italiane. In tanti campi se ci muovessimo per tempo in una direzione ben precisa difenderemmo molto meglio le nostre imprese.

Cosa manca al centro destra per essere all’avanguardia sui temi ambientali?

Il coraggio di una scelta politica forte. Non mi risulta che Berlusconi quando ha incontrato Bush gli abbia mai sollevato questo problema, mentre Sarkozy quando è andato negli Usa, pur acclamato come l’uomo della svolta dopo gli strappi di Chirac, ha posto questi temi al centro del confronto, dicendo senza mezzi termini: l’Europa ha ragione e voi avete torto, cambiate politica.

Mancano solo le scelte politiche?

Manca una cultura. A me dispiace perché queste sono sfide del sistema paese e non di una parte politica. Nel centrodestra abbonda gente che dà a questi argomenti un’importanza totalmente marginale. Ma dalla mia parte è lo stesso: se io dovessi scegliere tra Cameron e i tre quarti dei leader del Pd, su questi temi Cameron è meglio.

Il problema maggiore è che in tema ambientale le sfide comportano obiettivi di lungo periodo che la politica rinuncia a porsi. È così?

Ma l’occidente e l’Ue questo devono fare: muoversi per primi, altrimenti è difficile poi fare pressing su paesi come India, Brasile e Cina. Obama ha detto che entro dieci anni gli Stati Uniti si affrancheranno dal petrolio arabo producendo energia elettrica da fonti rinnovabili. È una sfida proibitiva, e personalmente sono propenso a creder che sia impraticabile, però fa capire lo spirito con cui si affronta il problema. La Francia si muove: una proposta francese vuole incorporare nel prezzo dei prodotti di importazione le emissioni di CO2, una sorta di barriera doganale che favorisce i virtuosi. Certo non è facilissimo immaginarsela, ma bisognerebbe pensarci su. In Europa i leader conservatori – Cameron in testa – sono impegnati nella corsa per la leadership su questi temi perché vogliono assumerne la guida, non così l’Italia.

Una sua valutazione del pacchetto energia del governo.

Non c’è un pacchetto energia del governo. Il governo ha solamente annunciato che farà le centrali nucleari. È un provvedimento che dal punto di vista dell’efficacia sulla bolletta riguarda non l’oggi ma il decennio che va dal 2020 al ‘30, ammesso che il progetto vada in porto. Io credo che gli italiani siano disposti a che i soldi pubblici vadano sulle rinnovabili, molto meno sul nucleare. Perché magari lo accettano, ma non con i soldi pubblici.

L’opinione pubblica però vede il nucleare in modo completamente diverso rispetto a vent’anni fa.

La posizione del Pd in materia è che in realtà ha senso investire in ricerca sul nucleare di quarta generazione, sia dal punto di vista del trattamento delle scorie che da quello della sicurezza dei reattori. In tutto l’occidente attualmente sono in costruzione due sole centrali di terza generazione: in Francia e in Finlandia.

C’è un’obiezione: le hanno già fatte.

Sì, ma non ci sono state più richieste da tempo. Negli Usa dalla seconda metà degli anni ’70 non si costruisce più una centrale nucleare, mentre se no sono fatte centinaia a metano, a carbone, di altro tipo, etc. La costruzione e la chiusura del ciclo costano troppo. Se hai una struttura privata di produzione dell’energia e ti devi caricare di tutto il costo, alla fine non ti conviene. Sul Corriere è uscito un articolo in cui si dice che Olkiluoto doveva essere operativa nel 2009, poi nel 2011 e infine è slittata al 2012 e i costi sono già aumentati del 50%. Di sicuro non è la soluzione magica per abbattere i costi dell’energia. E con la crisi in atto, difficilmente le banche metteranno soldi in progetti di non certo rientro. Le cose che dobbiamo fare sono legate molto di più al risparmio energetico e all’efficienza.

La crisi economico-finanziaria aggraverà i ritardi del nostro paese?

C’è un aspetto su cui sono fiducioso e che mi accomuna a Giorgio Vittadini: l’Italia è un paese che ha enormi risorse, innanzitutto in termini di capitale umano, e anche se abbiamo un enorme debito pubblico, questa vicenda della crisi finanziaria mondiale può mettere il nostro paese, paradossalmente, in una condizione di forza, perché il nostro sistema bancario è molto meno finanziarizzato, anche per ragioni culturali: molte medie imprese che erano andate in borsa, quando hanno capito che erano sottoposte a meccanismi che non comprendevano, o che potevano essere scalate, hanno fatto il delisting. Quello che in passato era ritenuto da molti un punto di arretratezza del paese, si è rivelato un punto di forza.

Non possiamo però attendere le crisi per scoprirci un paese virtuoso. Qual è la nostra forza?

Essa è legata alla capacità – direbbe Carlo Cipolla – di produrre “cose belle all’ombra dei campanili”; al tessuto dei territori, delle comunità, delle famiglie, della piccola e media impresa. Penso che a noi si adatti benissimo quel discorso di Kennedy, in cui dice che il Pil misura tutto in pochi numeri, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta e può dirci tutto sull’America, tranne perché siamo orgogliosi di essere americani. Oggi proprio le cose che non si possono misurare sono la base della competitività dell’economia. Sarà sempre più competitivo quel paese in cui l’economia si fonda sulla cultura, sulla forza della società, sulla capacità di intraprendere, sulle comunità intermedie… se questo paese si mette in moto nella direzione giusta anche sulla questione dei mutamenti climatici, può vincere la sfida.