L’accordo separato per i contratti del pubblico impiego (avvenuto lo stesso giorno della kermesse promossa dai sindacati confederali contro la legge Gelmini) è un caso a sé oppure costituisce l’inizio di una stagione di dura contrapposizione tra la Cgil e il Governo? È presto per dare dei giudizi definitivi, ma tra non molto saranno i fatti a fornire una risposta a questa domanda. Le verifiche sono all’ordine del giorno: si è nuovamente complicata la vertenza ex Alitalia; il negoziato con la Confindustria langue e si avvita nella solita inconcludenza. Si tratta di vicende estremamente indicative di come potranno evolvere non solo il modello di relazioni industriali, ma anche gli stessi rapporti tra le parti sociali, tenute fino ad ora insieme da un patto di reciproco riconoscimento che ha preso il posto, nel secondo dopoguerra, di un adeguato (e mancante) sistema di rappresentanza e di rappresentatività.



Come ha puntualmente scritto un’agenzia nel commentare l’evento di ieri, il “protocollo Brunetta” sugli statali diventa una polpetta avvelenata per i sindacati. La spaccatura tra le rappresentanze dei lavoratori non si sta limitando solamente al dato di fatto di una firma non concessa (Cgil), ma minaccia di innescare un terremoto dalle conseguenze “ramificate” ad altri settori. Sono evidenti, infatti, tensioni più o meno latenti con le controparti datoriali, o con il governo, su almeno un paio di questioni cruciali per il nostro paese: l’Alitalia e la scuola, appunto.



Territori che molto difficilmente potranno evitare di risentire di quanto si sta consumando in materia di contratto del pubblico impiego. Dopo la firma apposta da Cisl e Uil e rifiutata dalla Cgil sul documento proposto dal ministro Renato Brunetta, il primo a mettere il dito nella piaga è stato il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, avvertendo: “…mi dispiace che Cisl e Uil abbiano fatto una scelta diversa: è un errore che non rimarrà senza conseguenze”. Detto fatto: le risposte di Cisl e Uil sono arrivate immediate e senza troppi giri di parole. “Conseguenze? Sì… quella di rafforzare il qualunquismo”, ha chiosato il cislino Raffaele Bonanni. “Le conseguenze sono già alle nostre spalle… la Cgil soffre della sindrome di mettere la firma… sta smettendo di essere un sindacato”, gli ha fatto eco, con tono anche più polemico, il leader della Uil Luigi Angeletti.



Proprio questo è il problema: la Cgil sta giocando la propria partita in sintonia con il Pd, è pronta a mettere in campo le proprie truppe (lo ha già fatto il 25 ottobre sia pure in modo non comprensibile ai non addetti ai lavori) a sostegno di una battaglia radicale di opposizione. Il Governo non solo ne è consapevole (il ministro Brunetta, che questa settimana ha incassato non pochi successi, a partire dal voto della Camera sul “collegato lavoro”, ha ammesso chiaramente di essere disposto a stipulare intese “con chi ci sta”), ma sembra disposto – il dato è nuovo – ad affrontare lo scontro fino in fondo. Occorre però che l’esecutivo recuperi quella capacità di manovra che fino ad ora non ha avuto (paradossalmente il più corretto nei confronti dei sindacati è stato proprio il “vilipeso” Renato Brunetta). Cisl e Uil (al loro fianco si è schierata l’Ugl insieme ad un pezzo di sindacalismo autonomo) non possono essere abbandonate a se stesse.