Il federalismo fiscale è ufficialmente legge. Anzi, disegno di legge delega, il che significa che la strada per vederlo nascere è ancora lunga e impervia. “Due anni”, assicura il ministro Tremonti con ottimismo. “Il tempo di varare i decreti attuativi”. In realtà ce ne vorranno molti di più perché in mezzo ci sarà da prevedere una lunga transizione (5 anni?) che si presta ad imboscate e rallentamenti. Di qui il giudizio sospeso, sub judice se non preoccupato, di molti esponenti del cosiddetto fronte del nord. Perché quando tutti cantano vittoria, dalle Alpi a Mazara, c’è qualcosa che non torna. Lo abbiamo già scritto altre volte: nessuna riforma è a costo zero. Non possono vincere sempre tutti. Banalmente, se il saldo di finanza resta in pareggio significa che giocoforza aumenteranno le tasse. Sarebbe la più grossa sconfessione del federalismo, che acquista un senso solo se affama la bestia, dimagrisce lo stato centrale per stornare risorse da lasciare sul territorio. Non a caso è questo il rischio paventato da un insospettabile come Luca Ricolfi, ieri sul Riformista. Il professore ha fatto due calcoli ed è pessimista sul “federalismo assistenziale” del ministro Calderoli. “Si rischia di aumentare i costi della sanità – spiega Ricolfi – e di parametrare i costi standard non sul Lombardoveneto, bensì su Emilia Romagna e Toscana”. Risultato: “la spesa pubblica potrebbe crescere di un punto di Pil”. Strana nemesi.
La premesse in effetti non aiutano, ed è paradossale per un governo che incorpora come azionista di riferimento la Lega Nord. Insieme al Ddl delega, infatti, il Cdm ha approvato un decreto legge che mette a disposizione dei comuni 1,3 miliardi di euro per riequilibrare i conti degli enti locali, privati dell’introito Ici. Bene, si dirà. Peccato che dentro al decreto ci siano anche, pronta cassa, i 500 milioni per Roma capitale e i 140 per coprire il default del comune “amico” di Catania. “Regalie, non prestiti”, li ha definiti, sconfortato, Roberto Formigoni. Continuando così “si va ad accendere la miccia sotto il malcontento dei comuni virtuosi”. Nel frattempo, si prevede di regalare gli immobili di proprietà demaniale dello Stato alla città di Roma. Decisamente un brutto inizio.
Detto questo, c’è molto di buono nel Ddl. I principi guida sono sacrosanti. Per evitare un mare di sprechi – il ministro Maroni parla di 14-16 miliardi di risparmi a regime – la riforma punta a responsabilizzare i centri di spesa (gli enti locali), alla trasparenza dei meccanismi finanziari e al controllo dei cittadini sugli eletti e sui propri amministratori pubblici. In sostanza autonomia di entrata e di spesa di Comuni, Province, città metropolitane e Regioni rispettando i principi di solidarietà e di coesione sociale, ma anche premi o sanzioni per un’amministrazione più efficiente e un fondo perequativo che colmi i divari nel Paese. Infine la codificazione di Roma capitale, a cui saranno assegnate specifiche quote aggiuntive di tributi erariali.
E tuttavia, prima che la riforma si concretizzi e si varino i decreti attuativi, occorrerà definire l’autonomia finanziaria di Comuni, Province, città metropolitane e Regioni, secondo l’articolo 119 della Costituzione. Come dire: la partita inizia adesso, e l’accelerazione delle ultime settimane sa molto di cambiale pagata al Carroccio dopo l’exploit elettorale della scorsa primavera. Un conto infatti è l’intesa sui massimi sistemi, un altro capire le conseguenze concrete, soprattutto stabilire i numeri, di una riforma potenzialmente rivoluzionaria per l’Italia. Ad esempio occorre capire che tipo di perequazione si farà; stabilire quanta compartecipazione verrà data agli enti locali; quali saranno nel concreto i meccanismi sanzionatori: e quanto durerà la transizione. Anche “l’emendamento per Roma capitale va bene, ma va fatto qualcosa pure per le altre grandi città, altrimenti…”. Parola del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ma condivisa da tutti sopra il Po.